Penelope

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Con la punta del piede, Penelope saggia il pavimento ed evita per un soffio di inciampare nella figura goffa e voluminosa di Argo, pesantemente addormentato ai piedi del letto. Con cautela si alza e va alla finestra: cercare di dormire è inutile.
Da quando suo marito è tornato, e sono ormai venti giorni, chiudere occhio le è diventato impossibile.
Non è solo il suo russare continuo e assordante e nemmeno quel fastidioso bofonchiare nel sonno: il fatto è che non è facile riabituarsi a qualcuno dopo venti anni di assenza.
Penelope si siede sul davanzale della finestra a cogliere la brezza che spira dalla costa e guarda suo marito.
Eccolo lì Odisseo, l’eroe della guerra di Troia, l’abile stratega, il tessitore di inganni, colui che non sentiva di esser nato per vivere come un bruto ma per seguire virtù e conoscenza.
Impippandosene bellamente di lasciarla sola per due decenni ad accudire un figlio piccolo, un suocero rimbambito, un cane assillante e una pletora di Proci infoiati pretendenti al trono.
Applauso, pensa, e forse direbbe anche chapeau, se solo sapesse cosa sia.
Penelope si torce con stizza una ciocca di capelli e nella penombra si fissa la punta delle dita rovinate da anni di tessitura. Fai e disfa, fai e disfa, in un andirivieni nevrotico utile solo a tenere a bada un branco di sudicioni che per quattro anni non avevano fatto altro che svuotarle la dispensa, insozzarle i tappeti e pulirsi i calzari contro gli stipiti dei mobili.
A essere sincera, uno meno sudicione c’era stato. Era un ragazzo: poco più giovane degli altri, un poco più educato, meno arrogante, anzi quasi gentile.
Penelope arrossisce di piacere se ripensa a un torrido pomeriggio di due estati prima, quando il ragazzo l’aveva aiutata a raccogliere la menta e il citiso che le servivano ad addobbare la tavola: le loro mani si erano sfiorate, pelle contro pelle, i loro occhi si erano incantati a fissarsi pieni di stupore e di meraviglia.
Adesso lo bacio, aveva immaginato Penelope per un istante.
Il russare disordinato di Odisseo la riporta alla realtà e Penelope pensa che sarebbe stato meglio finire quel sudario, infilarci a forza quel vecchio noioso di Laerte, scegliere il giovane come sposo e andarsene lontano da quell’isola dove non succedeva mai nulla e dove nulla esisteva se non sassi, capre, pecore, cespugli di citiso e vecchie pettegole.
Invece no.
Invece era rimasta perché qualcuno aveva deciso che lei doveva essere il simbolo della fedeltà coniugale e del pudore. Femminili, si intende, perché ai signori ometti era concesso di tutto.
E sticazzi, avrebbe pensato, se solo avesse saputo che cosa volesse dire.
Il grugnito aritmico di Odisseo le fa corrugare la fronte.
Vent’anni per chi e per cosa?
Dove era finito il giovane biondo, dal corpo scultoreo e virile, che un giorno si era inginocchiato ai suoi piedi e abbracciandole le ginocchia e sussurrando i versi di Saffo l’aveva chiesta in sposa?
Vent’anni di guerre e vagabondaggi lo avevano trasformato in un uomo di mezza età, pancetta e calvizie e modi da scaricatore di porto.
Gli mancavano solo una lattina di birra e il telecomando in mano, se solo li avessero già inventati.
Penelope si agita inquieta e si sposta sulla seggiola. Come se non sapessi, mormora a denti stretti, come se non sapessi.
Il mondo è piccolo, da Itaca alle colonne di Ercole è un attimo, Penelope lo sa bene, e insieme a Odisseo, nell’isola erano arrivate notizie sulle sue bravate.
Un intero anno con Circe e ben sette e dico set-te con la ninfa Calipso.
Non ti sembrano un po’ tantini set-te anni? gli aveva chiesto lei il mattino precedente mentre, in silenzio, facevano colazione.
Odisseo era leggermente arrossito o almeno così le era parso e aveva bofonchiato qualcosa tipo: mi si era fermata la clessidra, era un casino con le coincidenze…
Poi si era alzato senza nemmeno finire la sua tazza di infuso di cicoria, lasciandola in compagnia di un senso di frustrazione che cresceva di ora in ora.
Vado a fare due passi fino al campo, le aveva detto lui.
Torni prima della fine del millennio? aveva replicato lei, acida.
Con un gesto di stizza, Penelope aveva scagliato le tazze nel mastello di legno colmo di acqua.
Certo che per lei la vita non è stata facile, mai, nemmeno per un minuto.
Ancora infante, era stata gettata in mare per ordine di quello sciagurato di suo padre Icario e solo l’intervento provvidenziale di alcune anatre che l’avevano tenta a galla e l’avevano spinta verso riva le aveva permesso di sopravvivere.
Il Telefono Azzurro era di là da venire e l’infanticidio non era cosa poi pratica così riprovevole.
Poteva bastare agli dei?
Certo che no, per Zeus! E così eccola incatenata per due decenni nell’isola più petrosa del Mediterraneo ad attendere un fanfarone, un mentitore, un traditore seriale, un… un… uno stronzo!
La parola le sfugge di bocca e a lei sembra quasi che risuoni per tutta Itaca.
Mi avranno sentita tutti, pensa, sveglierò tutta l’isola.
Invece no. Odisseo grugnisce e si gira dall’altra parte, Argo seguita a dormire come se niente fosse.
Venti anni. Venti anni a dare retta a un suocero petulante e sempre più preda dell’Alzheimer, a impastare pane, a tessere tele, ad accompagnare Telemaco a scuola e a sorridere come una deficiente alle anziane dell’isola che ogni anno le conferiscono l’ambito riconoscimento di SPOSA MODELLO DELL’ANNO.
Capirai. Quattro carampane rinsecchite che non hanno mai messo piede fuori da Itaca, il cui massimo svago è farsi pettinare le trecce il sabato pomeriggio da quella zabetta di Peribea e la cui massima aspirazione è citare una frase fatta presa paro paro da Gunayka, il papiro della greca moderna.
Penelope getta lo sguardo verso la costa e vede lo scintillio delle onde, incalzate dalla luna piena che insieme alle stelle rischiara la volta celeste.
Penelope ripensa al bisnonno Perseo, che le aveva insegnato a leggere le rotte disegnate dagli astri: fai tesoro dei miei insegnamenti, bambina, le aveva detto una volta il vegliardo, perché l’nvenzione del satellitare è molto di là da venire.
Penelope non aveva ben inteso che cosa intendesse dire il vecchio, ma non ci aveva dato peso: il bisnonno era molto anziano ed era normale che dicesse un mucchio di sciocchezze.
Di fronte a me c’è Scheria, pensa Penelope, e poi la misteriosa Leucas e ancora oltre il fascinoso Epiro.
E poi capisce, Penelope. Ed ha un sussulto.
Si alza, apre la cassapanca senza fare rumore, ne tira fuori un lenzuolo e vi infila due paia di sandali e due pepli.
Leggera, scivola fuori dalla stanza e scende in cucina: qualche pane, un pezzo di carne secca, una forma di quel formaggio duro e saporito di cui lei va pazza.
Acqua, pensa, mi ci vuole acqua.
Veloce, attraversa la casa, raccoglie poche ma utili cose, poi infila sicura la stradicciola che conduce all’imbarco.
Ride, Penelope, e quasi i piedi non toccano terra, da tanto leggera che è diventata.
E ripensa a quando il padre, non essendo riuscita ad affogarla, aveva deciso di insegnarle a navigare.
Portami con te, aveva chiesto al marito in procinto di partire per quella guerra insensata che era costata migliaia di vite, so navigare, so leggere le stelle, conosco le rotte del mare.
La nave non è posto per una femmina, aveva sentenziato Odisseo.
Coglione, pensa Penelope.
E seguita a pensarlo mentre sale sulla sua Nike, vecchia sì, ma ancora affidabile, mentre leva l’ancora, mentre scioglie le vele e cazza la randa, anche se questa ultima cosa non sa bene che cosa voglia dire.
E senza nemmeno un addio o un rimpianto, volge la prora verso nord.

N.d.A.: i riferimentI al mito letterario e mitologico di Penelope sono precisi. L’unica licenza che l’autrice si è concessa riguarda il cane Argo: nell’Odissea, come è noto, il vecchio e fedele Argo muore non appena riconosciuto Odisseo, mentre in questo racconto il cane è vivo e vegeto. L’autrice infatti si rifiuta di far morire qualsiasi tipo di animale nei suoi racconti, pur non disdegnando omicidi, ammazzamenti e stragi planetarie.

©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)
©Viviana Gabrini, podcast
©Studio Lenny Farmer elaborazione audio

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