La prima cosa che mi aveva colpito era stata la pelle: scivolosa, sudaticcia. E dopo tutti questi anni assieme ogni volta che mi tocca sento il sudore che passa dalla sua mano alla mia schiena. Solitamente faccio finta di nulla, gli sorrido con gli occhi e se del caso vado. Ma dove. Dove. Non posso nemmeno dire che mi abbia costretta, ho avuto i miei spazi, ho filato la mia solitudine come una trama di lana. Non sempre mi ha compreso, sfuggente e inumana, sono stata il buco nero della sua mente di amante. Ha inventato una canzone col mio nome: Chiara, mi canta, Chiara di questo cuore guastato dal tempo.
Ieri ho attraversato la siepe, c’era un che di primavera soffiata dal polline, il gelso ha spurgato perfino qualche frutto. Ho fatto una breve corsa traballante e malferma, anche un po’ ridicola, poi mi sono girata di colpo e l’ho visto, lì, immobile sulla porta. Guardava me confusa tra il verde dell’erba, misurava le distanze con la paura. Per un attimo mi è sembrato sgomento e ho capito perché non sono mai andata via, perché non l’ho mai lasciato. Avrei voluto dirgli: “Non avere paura, non è certo da questo cancello che sparirò”.
Si può amare tanto qualcuno e volerne stare lontani? E poi di nuovo vicini, e lontani? Penso troppo, il mio tempo attuale fa questo: mi deposita addosso scorie di intenzioni, di valutazioni, una sull’altra; la sera crollo stremata sotto questa catasta. La malattia mi inghiotte le viscere, non mangio da giorni, persino l’acqua si altera in lava rovente e mi incendia la gola. Ogni tanto fingo di bere: sembra crederci. Eppure fuori sono ancora così bella, così viva. Lui ormai mi sfiora soltanto, forse mi rassicura, o forse scommette su di noi. Perderà.
Tanto che oggi partiamo: ha occhi meno verdi del solito, virano al grigio e si confondono col colore del cielo. Penso che avrei voluto averli io quei suoi occhi verde erba, le sue pupille minuscole a spillo, le ciglia spinose e dure. Viaggiare in macchina mi fa paura, ma mi adagio al suono del motore che accompagna la sua voce in cantilena: Chiara; di questo cuore guasto. Chi lo sa se parlerà di noi due, di come ci siamo amati. Io ne parlerò a qualcuno, credo. Forse da qualche parte nuova, che non so, che non saprei.
L’ago brucia, così lui esplode improvviso in un pianto bambino fatto di piccolissimi sussulti, si abbraccia il petto, si piega sulle gambe. Sembra una sequoia spaccata da un fulmine inatteso, il tronco curvato dal peso di questo nostro amore sciagurato e bizzarro.
La donna col camice lo consola distrattamente: è meglio così, l’unica cosa da fare, mi creda, ha il diritto a una morte dignitosa. Lo ha mandato via in fretta con un gesto sbadato e gentile.
Ora delle mie sette vite mi è rimasta soltanto questa luce accecante, feroce.
©Marco Costantino opera fotografica
©Katia Colica testo