Un sorriso fatto di segni

foto di Katia Colica
foto di Katia Colica

UN SORRISO FATTO DI SEGNI

Ti sento. Sei dall’altra parte di questa trama immaginaria, ci unisce il filo labile di una rete virtuale, e lo so, lo immagino cosa starai considerando adesso.

            Penserai che tuo padre sia un poveretto in preda alla crisi di mezza età. Un quarantenne sfigato e solitario che proietta le sue frustrazioni e i suoi fallimenti familiari facendosi vedere in una foto di profilo abbronzato, con la polo bianca, i capelli con il gel – né troppo né troppo poco –  scattata davanti al barbecue, tanto per far capire a chi passa da qui che sono uno che si dà da fare, se del caso.

Pensalo pure, ma vedi: io dovevo trovarti, in giro, da qualche parte. In un modo qualunque io dovevo tirarti fuori dalle fughe fin dentro la tua stanza che metti in atto quando sei con me, durante i week end. O strapparti via dai tuoi silenzi davanti alla pizza mangiata senza fretta, al ristorante, la domenica sera prima di riportarti indietro.

Dovevo trovarti e, alla fine, ho ceduto.

Ho messo da parte le mie remore, i pregiudizi e i giudizi che ho sentenziato sarcastico, quando mi parlavi di questo luogo. E ti ho scovato qui dentro. Sapessi quanto ti ho cercato, prima di adesso. Sapessi bambino mio. Oh, ma non temere, non ti chiamerò mai così qui, a casa tua, dentro la tua bacheca, davanti a tutti. Non cederò alla tentazione di cliccare cento “mi piace” di approvazione sotto le frasi che copi da Osho e Ligabue e che, chissà, parlano anche di me. Di noi. Oppure no, forse appartengono a una tua vita esclusiva dalla quale sono tagliato fuori come una coda di lucertola. Vedi? Alla stessa maniera mi muovo, sbatto, ma è solo un moto inconsapevole. Inutile. Perché non mi do pace da quando vi ho visti andare via quel pomeriggio, assieme a tua madre. Lei mi disse, l’attimo prima, che avevo saputo fallire, uno per uno, tutti gli obiettivi che la vita familiare mi aveva parato davanti, con generosità.

Non si è voltata nemmeno una volta, no. Nemmeno la tentazione di cedere a una curiosità bambina. L’ho vista scendere diritta per le scale con te dietro, dinoccolato e ciondolante. Nelle mani tenevate le valige con poco o niente dentro, erano leggere come la vostra anima. Io invece sono rimasto qui, col peso improvviso ed eterno della mia, a spiarvi fino a giù in strada dalla finestra mentre le sistemavate con cura nel portabagagli. Tu sei rimasto per un attimo immobile con lo sportello aperto a guardarla mentre organizzava quello che era il resto della vostra vita senza di me. Poi hai alzato lo sguardo e hai sussultato nel trovare il mio. Forse non te l’aspettavi. Ma certo che no: tuo padre non si è mai arreso ai sentimentalismi. Ho fatto un gesto con la mano che sembrava voler dire “ci sono”. Invece cercavo di dire altro. Era un segno di resa, un gesto di rinuncia. Avevo perso tutto quanto mentre, negli anni, credevo di vincere.

La mia attenzione non l’avevo riservata a voi, non era mai stata nemmeno per un attimo vostra, pensandoci. Eravate soltanto una casualità che scorreva dentro le mie giornate fatte di altre cose. Non l’ho capito che eravate importanti, e sì che me l’ha ripetuto; lei, intendo.

E adesso sto qui, a cercare di capire come muovermi dentro lo spazio virtuale che ti avviluppa, in cui sei più vero della tua stessa carne che io ho creato, sedici anni fa, con una specie di casuale e sprovveduto miracolo d’amore. Quando ho verificato che la sentenza di un giudice non poteva, con le sue fasce d’orario prescritte, riportarti da me, ecco: non sapevo cosa fare. Ti vedevo e non c’eri, parlavo con nessuno. Cenavo con la tua assenza. Allora mi sono andato a cercare un posto per parlarti davvero, per dirti le cose che non sapevo di volerti dire.

E l’ho trovato, questo posto, su questo social network: ho caricato la mia foto migliore scattata l’anno scorso assieme a voi, ho inserito qualche informazione sul mio lavoro, ho aggiunto qualche collega, un paio di amici. Ho dedicato ore intere per indicare i libri che ho letto, i film che amo. Volevo fare una buona impressione, rivelare che non sono solo i grafici dell’ufficio riunioni a riscuotere il mio interesse. Volevo farti vedere che persino io potrei vivere di bellezza. Infine sono arrivato a te, pronto per farmi vedere ma agitato come se stessi per bussare dietro la porta di qualcuno che potrebbe benissimo non aprire. Che avrebbe tutto il diritto per non farlo.

La formula è bizzarra: non mi piaceva l’idea di chiedere l’amicizia a mio figlio, lo trovavo contro natura. Uno sforzo di apertura eccessivo, per me, che conosco solo i linguaggi di economia, di finanza.  Sono rimasto qualche ora fermo, immobile a non cliccare su quella piccola barra che stava proprio accanto alla tua foto. Hai pubblicato un’immagine di te abbracciato al quel tuo caro amico, state lì assieme in una posa un po’ buffa e un po’ dignitosa. Ho avuto una fitta di gelosia feroce che mi ha fatto sentire ancora peggiore: ma so bene che è giusto così, è questa la tua vita adesso. Se ho lasciato buchi, dentro questo tempo con voi, mi sembra logico che qualcuno debba riempirli. Anche con tua madre è andata così.

No, non parlerò di lei, giuro. Lo giuro, bambino mio. Quella sarà un’altra strada ancora che dovrò prendere e Dio solo sa dove me ne andrò a cercarla.

In realtà non so nemmeno di cosa ti parlerò in questo posto strano senza spazio. Un luogo che non esiste ma che mi permette di vederti esistere. Adesso mi sembra tutto più semplice, anche parlare con te senza parlarti. Pubblico il link a quella canzone che cantava sempre tua madre con la sua voce sottile, e la immagino accanto a te, curiosa. La vedo quasi passarti accanto, leggera, mentre ti dà una carezza sul viso che gratta le sue mani con la tua prima barba; e infine mi vede. Mi vede ma non sorride.

Sei legato a lei come un cucciolo, avete gli stessi occhi, le stesse assenze dentro lo sguardo. Le stesse ferite aperte. Io mi sono fidato del vostro legame esclusivo e vi ho lasciati soli, credendo che funzionasse così. Invece non ho mai capito bene, io, come funzioni in un mondo reale l’amore. Quindi da oggi provo a ripartire, mettendo assieme i pezzi dentro questo luogo virtuale, un luogo in cui ora, proprio in questo istante, mi accetti.  E lo fai mandandomi in bacheca anche uno di quegli smile che si fanno con la tastiera, unendo i due punti e la parentesi tonda chiusa. Adesso mi sembra quasi bello essere lontano da quella rigidità che mi faceva disprezzare l’uso stravagante che fate delle lettere dell’alfabeto, voi giovani.

Ma sono solo parole, in fondo, segni messi in fila sperando che qualcuno, davanti a noi, abbia ancora la forza e la pazienza di decodificarli. Per trovarci dentro qualcosa di buono che ancora abbiamo; che avrei.

Guardo lo smile sotto la tua foto, mi rileggo cento volte il tuo nome. È mio figlio questo, vorrei scrivere, dire, urlare.

È mio figlio, e mi sorride.

© Katia Colica, 2015

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