Nuove forme sono necessarie, dice Treplev all’inizio de Il gabbiano, e prosegue: “nuove forme sono necessarie, e, se non ce ne sono, è meglio che nulla sia necessario.” E poi compie per la terza volta nel corso di poco minuti un gesto emblematico: “guarda l’orologio”. Ma il suo orologio misura il futuro, il tempo che non c’è.
Sul quadrante di questo orologio non ci sono numeri in cerchio, ma il turbinio delle assenze: l’assenza di Nina, e forse del suo amore, l’assenza di un rapporto con la madre, l’assenza del teatro agognato. E proprio quest’ultima assenza accomuna strettamente Cechov alla sua fragile creatura.
Egli considerava il rinnovamento teatrale non solo come svincolamento dalle regole sceniche comuni, ma anche come ricerca di una più schietta aderenza ai fatti umani quali sono e appaiono nella quotidiana realtà. Il teatro rivoluzionario di Cechov era un sottile insieme di naturalismo e simbolismo.
In questo senso Il gabbiano rappresenta una innovazione nel teatro russo e precisamente la fusione del dramma borghese occidentale con quello scandinavo simbolista di Ibsen e di Strindberg. Molti principi innovativi di Cechov nella drammaturgia russa, come ad esempio la mancanza di suddivisione degli atti in scene, l’uso diffuso delle pause, i principi di caratterizzazione dei personaggi, le ampie didascalie, sono dedotti dalle tecniche ibseniane.
Alla fine del secolo diciannovesimo il mondo del teatro è in fermento, in questi anni si prepara a vivere una rivoluzione che darà inizio ad una nuova epoca. In Europa e anche in Russia si sta diffondendo lo stile naturalistico sotto la notevole influenza della troupe itinerante del duca Georg II di Sassonia-Meiningen, capitanata dal regista Kronek. Nell’ultimo decennio del diciannovesimo secolo va di moda il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, si comincia anche a mettere in scena Gerard Hauptmann, ma desta anche grande interesse l’autore belga Maurice Maeterlinck e il movimento simbolista.
In una lettera all’editore e amico Suvorin Cechov scrive: “perché non tentare di mettere in scena Maeterlinck nel vostro teatro? Proprio Suvorin fa conoscere gli scritti di Maeterlinck a Cechov: il 26 maggio del 1895 gli fa dono di una traduzione russa de I misteri dell’anima.
L’autunno successivo, nella sua dacia di Melichovo presso Mosca, Cechov inizierà la stesura de Il gabbiano, cercando di perseguire le “nuove forme”, distruggendo le vecchie. Ne Il gabbiano questo è soltanto un auspicio, un desiderio che si compirà definitivamente ne Il giardino dei ciliegi con i colpi di scure del quarto atto. Cechov si intona così alla profezia di Nietzsche che prevedeva che le nuove grandi guide avrebbero fatto la filosofia col martello e anticipava la Woolf che sentiva dappertutto il suono di asce che si abbattevano.
Alla fine del secolo diciannovesimo tutte le vecchie forme di vita e di pensiero, nella scienza, nell’arte, nella filosofia, stavano per essere abbattute. Anche il teatro sentiva fortemente la necessità del rinnovamento. Le parole che Cechov mette in bocca al suo eroe Treplev ruotano proprio attorno all’idea di necessità: “nuove forme sono necessarie, e, se non ce ne sono, è meglio che nulla sia necessario.”
Ma che cos’è necessità?
Il lavoro più consistente per determinare i confini di questa idea lo compie la monografia dello studioso tedesco Heinz Schreckenberg che passa in rassegna le molteplici etimologie della parola greca Ananke (necessità) giungendo alla conclusione che in Omero la parola è mutata da una probabile radice semitica chananke, basata sulle tre consonanti hnk. Ora hnk, in antico egizio significava angusto, mentre in siriaco significava catena, soffocamento.
Le più usuali etimologie collegano la parola Ananke al tedesco eng (angusto) e angst (ansia) con il greco anchein: strangolare. Anche per Platone l’etimo di Ananke richiama il farsi stretto: “idea è tratta dall’attraversare una gola impraticabile, accidentata e piena di rovi, che impedisce il movimento, questa è l’etimologia della parola necessario.” I latini chiamarono la greca Ananke, Necessitas: la nostra necessità. Ma anche in latino la parola rimanda all’idea di “legame stretto” o “vincolo stretto”.
Ad esempio, necessitudines sono persone alle quali si è strettamente legati, parenti, colleghi o amici.
Notate come necessità è parente stretta dell’ansia.
E i due termini coniugano le due istanze principali de Il gabbiano, l’amore e l’arte. Se, come abbiamo visto, l’amore si esprime attraverso l’ansia della creazione di “un’unica immagine d’arte”, questa immagine deve essere necessariamente nuova, non avere alcun legame con il passato.
Ne deriva che necessità ha uno stretto rapporto di parentela anche con il tempo. E infatti nel pensiero orfico Ananke era accoppiata con un grande serpente, Chronos, formando una specie di spira che stringeva tutt’intorno l’universo. Per cui essere liberi dal tempo significa essere liberi dalla necessità.
Treplev sa di non essere libero dal tempo, non è quindi libero dalla necessità di creare “nuove forme”, il suo obiettivo, conquistare l’amore della madre (che non lo ama come il responso dei petali della margherita conferma) si trasformerà progressivamente nell’obiettivo di conquistare il mondo della madre, il mondo del teatro.
©Matteo Tarasco