La mia città è una lama tagliente, una lampada a olio. Le indico la luna, lei guarda le dita dei figli di periferia, la polvere sotto le loro unghie, i loro calci alla testa di una bambola.
La mia città è trasparente come un bicchiere, metà aceto e metà preghiere.
Mette la testa sott’acqua per non sentire, mi tiene la mano per non farmi perdere come certi bambini ai supermercati, l’altoparlante che li rivuole indietro, appuntamento alle casse.
La mia Reggio è una cornice vuota, una medaglietta al collo, e non sorride mai.
Ho sognato di lasciarle le scarpe dietro la porta e fuggire, salire sul cassone di una lambretta, un fazzoletto annodato per valigia; le tasche piene di biglietti d’amore.
Ho sognato di pettinarla per l’ultima volta, imboccarla come si fa con una vecchia madre allettata: un cucchiaio di pane e brodo, uno di parole brucenti da inghiottire.
Ma la mia città è un ricamo a punto croce sulla pelle, ha due stelle elettriche per occhi e saprebbe volare col suo cuore a elica; così ogni volta che canta resto dietro la porta a sentire se dice il mio nome, o se lo confonde col buio; e deve ricominciare.
©Marco Costantino opera fotografica
©Katia Colica testo