Mia madre e io vivevamo a ridosso di un grande parco cittadino. Dietro il basso edificio in cui abitavamo, tra i frassini e le betulle, si snodavano stretti sentieri polverosi. Oltre i recinti di legno, i germani reali rimandavano umidi bagliori verdastri tra le rive dei laghetti e le sterpaglie.
Di fronte a casa, la statale era un via vai di auto che sfrecciavano a tutte le ore. Correvano in direzione dello snodo autostradale che portava verso la più grande città industriale del Paese.
Io uscivo soltanto la domenica, quando il chiosco era chiuso e lei non lavorava. Andavamo a sederci sui prati. Con noi portavamo un plaid arancione e qualche fetta di Torta Paradiso. Mamma metteva un rossetto sanguigno e teneva i capelli sulle spalle. Vestiva sempre di nero e non ho mai avuto il coraggio di chiederle il perché.
Il giorno in cui ho compiuto sei anni, mamma mi ha preso le mani e le ha strette nelle sue. Il sole le ingialliva il volto. Non c’erano tende alle finestre, a lei non piaceva sentirsi troppo fuori dal mondo.
Era un pomeriggio caldo. Fissavo la camicetta nera di mamma e sudavo sotto le ascelle. Lei aveva i palmi sudati e la fronte corrugata.
«A settembre dovrai andare a scuola».
Ho scosso il capo e mi sono divincolata dalla stretta.
«Non puoi startene sempre chiusa in casa. Ormai è passato tanto tempo».
Una rabbia liquida mi ha velato gli occhi.
«Perché mi fai questo? Non è vero che sto sempre in casa. Abbiamo il parco. Abbiamo tutto quello che ci serve».
Mamma ha sospirato e mi ha appoggiato le mani sulle spalle.
«Non esiste solo il parco. C’è un mondo intero là fuori, e tu lo devi scoprire».
Ho aperto la bocca e ho strillato: «Nel mondo si muore!»
Il pianto mi è risalito dalla pancia ed è esploso negli occhi. Urlavo e mi dimenavo con tutte le forze. In fondo alla gola si era formato un gomitolo di lana spinoso.
«Nina, le cose non stanno così. Avrebbe potuto succedere ovunque!»
Mi si è avvicinata ancora e ha allungato un braccio. Mi ha sfiorato un polso e io ho lasciato che lo afferrasse. Scrutavo la luce che dava ai suoi capelli il colore del plaid adagiato sul prato.
Mi sono calmata e ho pensato al giorno in cui papà non è più tornato. Una sera ha smesso semplicemente di rincasare. Ero troppo piccola per comprendere, così per molto tempo ho pensato che la morte fosse una pausa. Una specie di vacanza. Avevo immaginato che papà si trovasse al mare. Che nuotasse fino al largo, circondato dalle colline. Per un po’ l’ho odiato. Era più facile odiare che soffrire.
Alla fine mamma mi ha convinto, ma qualche mese prima che iniziasse la scuola sono arrivate le vespe.
Erano tantissime. Un nugolo fitto fitto. Mi ricordavano le nuvole di polvere che i ciclisti sollevavano correndo sui sentieri del parco.
Il ronzio che producevano mi metteva i brividi e mi faceva sussultare. Era una vibrazione cupa. Sembrava giungesse dalle radici del mondo. Simile all’avvisaglia di un terremoto.
Ho detto a mamma che avrebbe dovuto chiamare i pompieri. Lei si è chinata alla mia altezza, mi ha preso il mento tra pollice e indice e ha sorriso.
«Magari se ne vanno da sole, lo sai che sarebbe un peccato ucciderle? Sono in estinzione».
Ho scosso il capo. «No, mamma, quelle sono le api».
«Fa lo stesso» ha rimarcato. Si è sollevata e ha guardato fuori dalla finestra strizzando gli occhi.
Dopo qualche giorno mi ha portato nella sua stanza e mi ha mostrato due caschi da motociclista e due giacconi. I giacconi puzzavano di acido e disinfettante.
«Ho ideato un repellente» ha detto. Le brillavano gli occhi.
«E i caschi?»
«Qualcuno li ha lasciati nel parco. Erano nel magazzino del custode. Lui mi ha assicurato che se nessuno li reclama posso tenerli. Sono lì da due anni».
Ho annuito e abbassato la testa. Non credevo che avrebbe funzionato. Avevo paura del veleno, ma a terrorizzarmi era soprattutto quel ronzio che pareva arrivasse dalle viscere della terra.
Invece è andato tutto abbastanza bene. Il casco mi stava largo e, con la testa chiusa lì dentro, mi sentivo nella boccia di un pesce. I suoni arrivavano compressi e ovattati. Il calore mi si scioglieva come burro sulla fronte e dietro le orecchie. Per fortuna, così conciate, non sentivamo le vespe e una volta uscite dal loro raggio di azione potevamo toglierci i caschi. Certo, il puzzo chimico dei giacconi restava. Mamma aveva ideato una mistura efficacissima, frutto dei suoi passati studi di chimica all’università.
I primi giorni in classe non sono stati granché. Una bambina bionda diceva a tutti che puzzavo. Stringeva il naso con due dita e con l’altra mano si faceva vento. Io non reagivo. Durante l’intervallo restavo sola al banco con un foglio davanti. Raffiguravo il parco con i laghetti, i pioppi e le vespe grandi come fiori di zucca. Qualche volta ho disegnato papà che si tuffava in un mare che non avevo mai visto. In quei momenti tornavo a odiarlo, ma solo per un po’.
Un paio di giorni dopo, mamma non è venuta a prendermi a scuola. Ho pensato alle vespe, al veleno e alle lunghe pause che separavano i vivi dai morti.
Non avevo un telefono. La maestra ha chiamato a casa e non ha risposto nessuno. Diceva che non poteva lasciarmi andare se mia madre non tornava a prendermi. Ma quando si è distratta per telefonare di nuovo, sono sgusciata via. Ho corso a perdifiato con lo zaino che mi sbilanciava a destra e a sinistra e ho oltrepassato il cancello della scuola.
Anche se avevo sei anni, e uscivo solo per andare al parco, avevo memorizzato il tragitto da casa a scuola.
Ho superato il market con le facciate color caffelatte, le poste con i pensionati sonnolenti in fila e ho attraversato la strada. Ecco le prime case basse che precedevano l’ingresso nel parco. Ho fatto un tratto di marciapiede in salita e mi sono tappata le orecchie. Le auto giungevano a tutta velocità stridendo e rombando sull’asfalto.
Sono arrivata vicino a casa con il cuore che martellava tra la gola e il petto. Che cosa era successo a mamma? Perché non aveva risposto al telefono? L’effetto dell’adrenalina era sfumato. Mi sentivo molle come lo strofinaccio della cucina. Un terrore nuovo mi ha spalancato la bocca. Come avrei potuto entrare in casa? Non avevo il casco. Mamma lo portava con sé quando veniva a prendermi. Il giaccone da solo non sarebbe bastato. Già da quella distanza, percepivo il ronzio e vedevo la nuvola scura dello sciame.
Ho portato le mani alla testa. Ho pensato alla mamma. Ai capelli sciolti sul cuscino e al sole che le arrivava dritto sulle palpebre chiuse.
Che per qualche ragione fosse ancora al chiosco? Che stesse preparando un panino con la mortadella nell’abitacolo rovente?
Impossibile. A quell’ora era la sua socia a mandare avanti gli affari. Allora ho chiuso gli occhi e ho immaginato mamma e papà che ridevano come dei pazzi dentro l’acqua del mare. Sciaguattavano fra gli spruzzi e si coprivano gli occhi con il dorso delle mani.
L’immagine si è sfaldata in fretta, lasciandomi un’impressione rossastra.
Quando ho riaperto gli occhi con cautela, mi sono ritrovata su una striscia di sabbia. Il sole a picco mi faceva sudare dietro al collo. Poco distante, dentro una grande distesa d’acqua, mamma e papà mi invitavano a raggiungerli con un cenno. Un ricordo confuso si stava affacciando alla memoria. C’eravamo io e la mamma. Stavamo attraversando la strada. Io facevo pressione sul laccetto del casco che non si scioglieva. Ricordo il ronzio di un’unica vespa. Ma forse era qualcos’altro. Qualcosa che si avvicinava e scuoteva la terra da sotto i piedi.
Ho serrato e riaperto gli occhi. Ho visto una vespa grande come un fiore di zucca che mi ronzava attorno. Mi sono stretta nelle spalle e sono corsa verso la battigia.
©Laura Scaramozzino