Nel teatro di Cechov tutto diviene piccolo, minuto, parcellizzato, anche l’immensità dell’eternità, anche l’immensità degli spazi, perché Anton spia l’universo dalla stretta fessura dell’angoscia, attraverso questa ferita dell’essere, Anton descrive il mondo con la rara e preziosa capacità di rendere enorme il minuscolo, piccolo il grande.
Anton Pavlovic Cechov ha scritto più di quello che ha scritto; come Omero, considera non soltanto quello che deve dire, ma anche quello che non deve dire: tra le parole, nelle regioni bianche della pagina, vi è qualcosa di misterioso, di non detto, d’incommensurabile, che soltanto le parole stesse possono rivelare, lasciar intuire quando, abbandonata la distesa di carta della pagina, si fanno carne e verbo; se leggete a voce alta le parole di Cechov, sentirete quel qualcosa di misterioso che giace nascosto in mezzo alle parole pronunciate; ebbene è proprio quel qualcosa di misterioso ciò che conta, perché Cechov ha la rara forza di farci udire l’invisibile, come un angelo del silenzio che vola sopra le pagine, sopra le tavole del palcoscenico, sopra i nostri cuori.
Un essenziale legame con il futuro determina l’opera di Cechov, è un futuro tragico, se considerato nei limini della vita umana, ma luminoso, se allargato sull’orizzonte infinito del domani.
Questa costante tensione all’altrove ha nel teatro una via di fuga, una prospettiva anamorfica, perché «il teatro è il posto più adatto per evocare gli spiriti, una fossa nera senza fondo, come una tomba nella quale si nasconde la morte», per usare le parole di Vasilij Vasil’ic Svetlovidov, il vecchio comico protagonista de Il canto del cigno.
Rendere visibile la morte nascosta è la missione segreta del teatro di Cechov, che si fa specchio dell’essere, uno specchio che non giudica e non suggerisce soluzioni, ma che registra e mostra: «l’uomo diventerà migliore quando gli avremo mostrato com’è» – amava ripetere Cechov – «e non certo quando gli avremo insegnato a essere migliore, né tanto meno quando lo avremmo giudicato peggiore».
Cechov nelle sue opere ha trasformato il mondo in un macroantropo.
Il mondo di Cechov è l’uomo, l’essere umano è l’universo da indagare: quando egli rappresenta i sentimenti di Vanja, delle sorelle Prozorov, di Arkadina o di Ljubov’ Andreevna, come di ogni sua singola creatura, queste assurgono allo statuto di icone del mondo immaginale, il cui dramma è messo in scena anche nei nostri cuori, perché il microcosmo dei nostri cuori rispecchia la vita macrocosmica, e il cosmo diventa appunto macroantropo.
Le crisi, le cadute, le gioie delle sue creature sono lo specchio delle crisi e delle cadute di generazioni intere, di classi intere, di gruppi sociali e Cechov racconta tutto questo divenire senza mai una parola di troppo, senza mai un giudizio.
©Matteo Tarasco