Ispirazioni [3] di Alessandro Morbidelli

Ho chiesto una frase a Pierluigi Porazzi, autore Marsilio attualmente in libreria con Azrael. Uno che le storie le scrive con il nero. Potete leggere una mia recensione al suo romanzo QUI.

Pierluigi mi ha dato queste frasi:

Era come quando senti una melodia che ti entra in testa.

Speravo di averla dimenticata, di non provare più nulla per lei, ma è bastato rivedere il suo sorriso in una fotografia. E di nuovo si era impadronita della mia mente, diventando sottofondo di ogni mio pensiero, con quel suo maledetto, splendido sorriso.

Mentre lo scrivevo, ho ascoltato l’intero album “Melody Summer” dei The Tumbled Sea.

immagine di Alessandro Morbidelli

AUTORITRATTO

«Carlo, stai bene?» mi chiese Virginia. E io non fui capace di risponderle. Mi alzai dalla sedia, con la cartellina aperta in mano, e mi diressi in bagno. Di tutto il contenuto dell’involucro di cartone, solo quella foto mi portai dietro, lasciando il resto sopra una mensola. L’avevo trovata per caso, cercando un vecchio documento.

Davanti allo specchio ovale, fissai il suo volto, poi il mio. Avevo sete. Mi scottavano le tempie. Era passato troppo tempo dall’ultima volta. Eppure mi sembrò normale, riconoscere il sorriso di Irene. Si era acceso qualcosa, i ricordi avevano iniziato a suonare. Come una melodia che ti entra in testa e sai che non uscirà mai, rivivrà in eterno nell’eco dei tuoi pensieri, e prima o poi tornerà a farsi sentire. Speravo di averla dimenticata, di non provare più nulla, e mi sentii stupido. Dovevo saperlo che sarebbe stato impossibile. Anche Virginia lo sapeva, che prima o poi Irene sarebbe tornata.

Il giorno dopo mi trovai con una sigaretta in bocca, di fronte a un grande scatolone con gli angoli bagnati e stropicciati. Virginia e Michele non sarebbero tornati prima di cena. Mentre il figlio faceva nuoto, la madre ne approfittava per andare in palestra. Il nostro garage era l’ultimo della fila, il più nascosto. Tolsi il coperchio.

I disegni a carboncino di Irene brillarono, pulviscolo d’oro su nero. La luce gialla della lampadina era intensa, riusciva a ravvivare le sfumature, i tratti, le macchie. Autoritratti, primi piani del suo volto. E il suo sorriso, che riusciva a riproporre su carta come se questa fosse viva e aspettasse soltanto lei per essere felice. Un sorriso che di nuovo si impadronì della mia mente. Solo io sapevo leggerlo. Solo io sapevo indovinare la piega sottile che nessuno, a quei tempi, poteva vedere. Solo io riconoscevo nelle note del ricordo un arpeggio di tragedia.

Chiusi tutto, tornai di sopra e preparai la cena. Qualche ora dopo Michele parlò del padre di Roberto, l’istruttore di nuoto. Due spalle come un armadio, mica come te, papà.

Io ascoltavo, ma il sottofondo era sempre quell’altra melodia. Di notte non chiusi occhio.

L’indomani mi concentrai sul lavoro. Stavo curando una campagna pubblicitaria per un marchio di moda sportiva. Ma non bastò. I bozzetti degli stilisti diventavano neri sotto i miei occhi. Nei volti vuoti dei modelli di prova, strisce di carboncino andavano a formare i lineamenti di Irene.

Anche quella notte non chiusi occhio. Quella e molte altre, dopo. Virginia crollava con la fronte sulla mia schiena, tanto provava a farmi sentire la sua presenza. Eppure la sua era una partenza. L’immobile ero io, fermo.

Un giorno il mio capo mi convocò nel suo ufficio e mi diede tre giorni di riposo. Non li volevo. Mi costrinse. Così mi ritrovai al parco, seduto su una panchina. Giocherellai con il mazzo di chiavi di casa, indeciso se usarle o meno per tornare nella tana. Poi vidi un negozio nuovo, dalla parte opposta della strada. La Casa dell’Artista, si chiamava. Entrai quasi in punta di piedi. Riconobbi subito il proprietario. Aveva lo sguardo severo degli uomini che hanno perso qualcosa.

Presi dei fogli e alcune matite a carboncino.

«Lei somiglia tantissimo a una cliente del mio vecchio negozio. La ritrattista più brava che abbia mai conosciuto. Anzi, l’autoritrattista… Self-portraitist, in America li chiamano così… Non sarà mica un parente di Irene? Sono anni che non la vedo…» mi disse mentre pagavo.

Sorrisi. La melodia. Le note. Non mancava niente. «No, non la conosco…» risposi.

Tornai alla panchina. Provai a disegnare il sorriso di Irene. Non ci riuscii. Iniziò a piovere quando avevo già stracciato tre fogli interi. Allora tra una goccia e l’altra provai a disegnare il mio.

Mi trovai a casa dei miei genitori poco prima di sera. Il cielo stava incupendo, le nuvole erano gonfie e il vento smuoveva gli infissi a strattoni. Seduto al tavolo del soggiorno, ritrovai gli odori della casa dove ero cresciuto e che da tanto, troppo tempo, non sentivo. Mio padre e mia madre erano di fronte a me, in silenzio. Sui mobili e appese alle pareti, foto di Irene. Il suo sorriso tragico. La luce dei suoi occhi.

Feci per andarmene prima di cena.

«Torna a trovarci quando vuoi…» disse mia madre mentre imboccavo l’uscita, mano sulla spalla.

«Sì… torna a trovarci quando vuoi, Irene…» disse mio padre, senza alzare mai lo sguardo dal tavolo, «Perché tanto tu per me continuerai sempre a essere Irene…».

Prima di salire a casa, mi attardai intorno al cassonetto della carta. Lo scatolone con gli autoritratti di Irene, o meglio, di me quando ero Irene, finirono sul fondo bianco. Cenai tardi. Michele e Virginia erano già sul divano, di fronte a una serie Tv. Il piatto ancora sul tavolo, presi dalla borsa foglio e carboncino. Completai il mio autoritratto con tale foga che non mi accorsi che entrambi mi avevano raggiunto.

Quando appoggiai la matita, lo dissero nello stesso momento, con gli occhi spalancati dalla sorpresa: «È bellissimo. È davvero identico a te…».

© Alessandro Morbidelli, 2015

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