E’ NORMALE
Tu dimmi se è normale. Ritornare dal lavoro più morto che vivo, dopo essermi inferocito con tutti quelli che non hanno fatto quello che dovevano, e che ogni giorno non lo fanno; dopo aver sopportato una coda di tre quarti d’ora in tangenziale; dopo aver aspettato e pregustato il momento in cui avrei varcato la soglia di casa. Pantofole, pigiama senza mutande sotto. Sul divano sbracato ad annusare l’aria, mentre la pasta cuoce. Ragù o sugo di pesce? Queste sono le domande che mi piace sentire quando rientro. Magari, nel frattempo, ci facciamo una partita con la Wii, che dici? Questo, era il progetto.
Invece io entro e tu non dici niente. Dove sei? Nessun aroma di rosmarino o prezzemolo o cipolla viene a solleticare il mio naso voglioso. In casa nostra mi accoglie il silenzio. Un silenzio strano, però, perché non è vuoto. Come se in sottofondo ci fosse la promessa di qualcosa. E infatti arriva limpido un tuo risolino. Lo conosco bene. Lo fai quando vuoi metterti in mostra per qualcosa. Devi aver provato una nuova ricetta e vuoi farmi una sorpresa. Forse sei andata dal parrucchiere e vuoi vedere se me ne accorgo. Sorrido tra me, sei proprio una bambina.
Giro l’angolo del corridoio che divide l’ingresso dalla zona living. Tu dimmi se è normale, luci soffuse, bicchieri di cristallo. Questa è fantascienza. E’ una scena che pare uscita da un episodio del Doctor Who. Hai pure aperto il tuo vino preferito. Prosecco millesimato. Deve essere proprio una grande occasione. In che periodo storico siamo? Ti guardo come si guarda un quadro. Gambe accavallate, abito più corto del normale, calze velate e scarpe col tacco. Tiri indietro la testa e sorridi. Splende il rossetto rosso delle grandi occasioni. Mi guardi come si fa con il cane di casa, accondiscendente e distratta. No, tu dimmi se è normale. Non posso nemmeno togliermi le scarpe. E poi me lo presenti come se fosse una cosa banale. Questo è Claudio. Claudio-Claudio, dici. Intendendo “quel” Claudio. Quello dell’università, intelligente intelligentissimo che però non si è mai laureato; bello bellissimo che non si è mai sposato; Claudio il marinaio, l’architetto, quello che ha visto tutte le terre del mondo, che sa cucinare e mettere i piatti in lavastoviglie con lo stesso aplomb con cui Nuvolari accarezzava la carrozzeria della sua Ferrari. Quante volte me l’hai raccontato? Lo guardo come farei con un unicorno. Lui mi tende la mano e nemmeno si alza. E’ sprofondato nel divano quasi fosse a casa sua. Mi devo avvicinare io. Poi tu mi chiedi di apparecchiare. Schiaccio la mia risposta risentita in mezzo ai denti. Neanche ti domando cosa ci sia di pronto: è chiaro che non c’è niente e che hai passato il tempo a chiacchierare con lui. Siete così vicini, occhi negli occhi, e le gambe si sfiorano in modo inequivocabile. Quasi quasi vado a prendere una pizza da Gerardo e me la mangio per strada, prima di sentire ancora uno dei vostri “ti ricordi?”.
Poi sono io a ricordarmi, di colpo. E’ stato lui il tuo primo amore. Quello che ti ha fatto strappare i capelli e inzuppare il cuscino, notte e giorno. Senza poterlo dire a nessuno. Perché era un segreto che ti aveva consumato. Solo a te, mi hai detto. Lo dirò solo a te, com’era. Ricordi?
Com’era? Era l’unico che tu sia riuscita ad amare. E infatti guarda lì come te la stai godendo, sorniona e gatta, accoccolata tra le sue braccia, sei un gomitolo. E’ comunque il tuo migliore amico, anche se vive dall’altra parte del mondo. Bello, sempre, da matti. Avete gli stessi gusti, gli stessi ritmi, respirate all’unisono. E si vede che vi volete un bene che non è di questa terra. Certo che mi ricordo com’era. Era gay. E tu lo ami ancora.
D’accordo mamma, apparecchio.
© Roberta Lepri, 2015
bel racconto, peccato per quel “era gay”: Sarebbe stato molto bello lo stesso…
…Certo che mi ricordo… E tu lo ami ancora.
d’accordo mamma, apparecchio io stasera…
ma così rende ancora di più l’idea di amore impossibile, no?