GLI SCARRAFONI DI MAMMA’
Ci sono cose che non si possono scegliere: i parenti e i vicini di casa per esempio.
Io sono una sorella di mezzo: due fratelli prima di me e due più piccoli. Ho passato l’infanzia implorando una sorellina ai miei genitori, ma dopo il quarto maschio ho smesso. Volevo essere figlia unica.
Casa nostra sembrava per metà una caserma e per metà lo spogliatoio di una palestra. Tenere a bada i miei fratelli – una banda di Unni in crescita – non era facile. Toccava al maresciallo di turno, che era anche cuoco, lavandaio, domestico, sarto, magazziniere, ortolano, infermiere, precettore, economo, assistente fisico e spirituale. La mamma insomma. Lei applicava una sola regola: amore e punizioni erano per tutti. Se qualcuno di noi combinava qualcosa, finivamo in castigo tutti e cinque. Così, grazie ai miei fratelli ero sempre in punizione. Non si poteva sprecare nulla in una famiglia di sette persone. Per risparmiare, mamma mi portava dal barbiere con i maschi. Detestavo i miei capelli corti, portavo vestiti smessi, ne avevo pochissimi da bambina. I miei fratelli mi chiamavano “Pu”, diminutivo di “pulce”. Li odiavo.
Camilla era la nostra vicina di casa. Aveva tre anni più di me, figlia unica. Era grande e irraggiungibile, nell’età in cui anche mezzo anno in più fa differenza. I suoi potevano permettersi la cameriera, avevano una casa impeccabile e Camilla era la luce dei loro occhi. Io ero un urlo di guerra nella gola di mia madre: “Mariellaaaa, Martinooo, Mauriziooo, Massimilianooo, Marcelloooo”. Ai miei piacevano i nomi lunghi, con la emme.
Stravedevo per Camilla. Non era bella, ma aveva i capelli lunghi e biondi e arrotolava le erre in maniera irresistibile. Mi piaceva dire «Porta aperta per chi porta. Chi non porta, parta pure, poco importa» imitando le sue erre strascicate, con pessimi risultati. Facevo carte false per poter andare a giocare a casa sua e quando succedeva, per me era Natale. Lei non veniva mai a giocare da noi. Spiavo il suo armadio bianco, pieno di vestiti tutti suoi. Lei mi comandava con la stessa bacchetta con cui mi stregava. «Mariella, prendimi il Dolce forno. Mariella, infilami un nuovo braccialetto. Mariella, non toccare quel carillon». I suoi giochi erano favolosi: lei aveva ogni aggeggio di Barbie, persino il camper, il cavallo, la macchina e almeno una ventina di Barbie da collezione. Io di Barbie ne avevo una sola, il modello base in costume da bagno, ormai nuda, rapata con le forbici da mio fratello Mauri e mangiucchiata dal cane grazie all’ingegno di Marcello.
«Mariella, mi fai le trecce? Mariella mi metti lo smalto?». Camilla mi usava come servetta: non giocava con me, mi mostrava le sue cose e mi faceva fare quel che voleva. Non importava, mi accontentavo di essere lì a osservare quelle meraviglie e a metterle lo smalto, mentre io mi mangiavo le unghie Sua mamma non era come la mia, se Camilla piagnucolava o pestava i piedi, non urlava di smettere, la abbracciava forte e la consolava. Se Camilla voleva il gelato alle otto di sera, sua mamma diceva «Ora mandiamo qualcuno a prenderlo».
Avrei cambiato la mia vita con la sua, fino al giorno del suo dodicesimo compleanno. Il compleanno di Camilla era un evento, i suoi genitori iniziavano a organizzare la festa almeno un mese prima. Camilla mandava inviti con i brillantini solo a poche bambine fortunate e riceveva regali galattici. Io avevo nove anni, lei era già in prima media. Era grandissima.
«Le medie sono da favola, vero?» chiedevo a Massimiliano, che era in terza. Lui mi rispondeva con un grugnito e una sonora alzata di spalle.
Un pomeriggio, mentre sistemavo gli abiti di Barbie nella cameretta di Camilla, lei se ne uscì con una proposta strabiliante: «Mariella, questo è per te», disse allungandomi una bustina gialla ricoperta di lustrini. Il cuore mi salì nelle orecchie, sapevo benissimo cosa conteneva quella busta, perché i lustrini li avevo incollati io. «Davv…davvero posso venire?».
«Ma certo, basta che m’inviti a giocare da te, la settimana prossima». Mi sentivo una trottola caricata a felicità. «Siiiì, anche domani, anche subito, anche adesso». Così Camilla venne a giocare da noi e fu un pomeriggio perfetto. Portò un vassoio di paste che gli Unni polverizzarono in dieci secondi. Fu gentile e sorridente come una principessa in visita ai sudditi. Volle vedere tutto, persino il pollaio, l’orto e i letti dei miei fratelli. Mi fece ripetere chi ci dormiva: «Qui sopra dorme Mauri, sotto Marcello, nell’altra stanza io e Martino e in soffitta Massimiliano, che è più grande». Per la prima volta Camilla giocò con me e la mia vecchia Barbie. Disse persino «Mi piace con quel taglio». La mia gioia era totale.
La notte prima del suo compleanno non riuscii a chiudere occhio. Avevo impegnato tutte le mie paghette per prenderle il cane di Barbie con il guinzaglio dorato. Avrei indossato un vestitino nuovo fatto apposta da mamma.
Fu un disastro. C’erano quattro cani col guinzaglio dorato fra i regali. Camilla e le sue amiche mi ignorarono del tutto. Loro erano grandi.
«Ma perché hai invitato quella lì? Hai visto che capelli e che scarpe?» le sentii bisbigliare e poi la voce di Camilla che arrotolava le erre: «Sì, lo so, è una scarrafona, ma è la sorella di Massimiliano Bettini e lui è tanto bello!». L’incantesimo si ruppe.
«Porta aperta per chi porta. Chi non porta, parta pure, poco importa».
Me ne andai sbattendola quella porta e in quella casa non ci misi più piede. Poco importa.
Gli anni sono passati, io e i miei fratelli siamo cresciuti, abbiamo studiato, ciascuno ha preso la sua strada. Camilla si è trasferita dopo le superiori, i suoi le hanno preso in affitto un appartamento vicino all’università, da cui tornava di tanto in tanto con il naso più piccolo, il seno più grosso, i capelli più biondi. Non ha mai perso la passione per le Barbie, di cui è riuscita a diventare un modello più moderno e aggressivo. Qualche anno fa si è sposata in pompa magna col notaio del paese, il dottor Miringotti, un Ken vecchio quanto suo padre, con delle imbarazzanti orecchie a sventola e il portafoglio dorato. Contenta lei.
I miei genitori abitano ancora nella loro vecchia casa. Ora li chiamiamo “nonni”: io e miei fratelli abbiamo 2,25 figli a testa, tutti tranne Massimiliano che è ufficiale in Aeronautica e continua a essere uno sciupafemmine convinto.
Le mie figlie, Myriam e Milena hanno tre e cinque anni. So che non vale se lo dico io, ma sono bellissime. Da quando ho rivisto Camilla poi, lo dico ancora più volentieri. Era domenica pomeriggio, le bambine giocavano in cortile dai miei, lei è passata spingendo un passeggino doppio di quelli da trekking. E’ invecchiata quanto me, in un mondo tutto suo, senza rughe, senza chili di troppo e senza buongusto nel vestirsi.
L’ho salutata da lontano, ma le bimbe le sono corse incontro, perché a loro piace coccolare i bimbi piccoli. Ho corso anch’io, perché conosco le mie pesti e sono arrivata in tempo per sentire quella strega di Myriam che sillabava «Che belle orecchie, sembrano quelle di Cucciolo dei sette nani», mentre Milena cercava di arrampicarsi dentro al passeggino.
«Ciao Camilla» ho detto, cercando di essere gioviale, mentre staccavo Milena dal passeggino e toglievo le mani di Myriam dalle orecchie dei gemelli. Camilla ha fatto un cenno del capo e un sorriso rigido quanto il resto del corpo.
«Complimenti per i bambini, quanto tempo hanno?». Non ce l’ho fatta a dire “Che belli”, perché dal passeggino spuntavano le fotocopie in miniatura del notaio Miringotti, orecchie comprese.
«Ronald e Brad hanno quindici mesi» mi ha risposto altezzosa, arrotolando la solita erre «Li devo solo sistemare un po’, poi saranno perfetti».
Il verbo “sistemare” mi ha fatto andare in bestia, come il giorno del suo compleanno. So che i bambini non c’entrano – povere stelle – ho sbottato.
«Puoi tagliargli le orecchie come ai Doberman, con le lame che ti ritrovi al posto delle unghie non farai fatica. Oppure ripiegale a origami dietro la testa. Poveri loro, non saranno mai alla tua altezza. Gli unici scarrafoni che non piacciono nemmeno a mammà».
Ho arraffato Myriam e Milena e le ho trascinate via. Il cane di Barbie ha ringhiato dentro alla mia testa. Mi è venuto da piangere.