Creature del Cielo (Heavenly creatures, 1994) di Peter Jackson
Nel ripercorrere il caso di Pauline Rieper e Juliet Hulme, quindicenni neozelandesi salite nel 1954 alla ribalta delle cronache, Peter Jackson costruisce un quadro potentemente emozionale, fatto di epifanie, visioni, tempeste sentimentali in un contesto ostile, e sospende del tutto il giudizio morale.
Tutto il mondo di Pauline e Juliet è governato da crudeltà ed insensatezza, cui tentano di sopravvivere intrecciando una conversazione tra i loro spiriti, mossi da un senso dell’ eccesso opposto e complementare.
Pauline e Juliet custodiscono e incarnano un motivo romantico e cavalleresco dell’amore. L’archetipo cortese e medioevale diventa il fil rouge del film, sia a livello immaginario quanto nel tipo di sentimento espresso. Pauline è il cavaliere ombroso, è la solitudine che cova rabbia e oscurità, è bellezza selvatica, furibonda, irta di spine a nascondere la sua pungente fragilità; lei è l’arma, la protezione, la guerriera e servitrice. Juliet invece è la fanciulla colta e principesca, è la bellezza in forme stilnoviste, da cui traspira grazia, canto, e una vivacità femminile che ne fanno oggetto di poesia; è una musa inquieta e ribelle, piena di entusiasmi quanto di improvvise malinconie. Juliet è il motore delle immaginazioni, è la fantasia che si dispiega, la follia visionaria che trascina i silenzi di Pauline.
La fede che Juliet ripone in Pauline diviene la chiave di un rapporto di devozione assoluta, da cui si sprigiona il loro regno: la Quarta Dimensione, omaggio alla Nuova Zelanda idealizzata da Jackson, terra del mito, di fiori giganti ed unicorni; e le corse nella campagna solare sprigionano l’essenza selvaggia e primigenia delle ragazze, in fuga dalla prigione delle proprie esperienze dolorose.
© Marcella Leonardi