Emanuelle in America di Joe D’Amato (1976)
Emanuelle in America è tutto ciò che al cinema non si può più fare, sepolto da decenni di buone intenzioni, di impegno sociale, di politica che ha “responsabilizzato” i nostri autori (o presunti tali) costringendoli a un cinema anemico, investito di senso, e profondamente limitato. Il cinema di Joe D’Amato, nel bene e nel male, è delirio, è uno schiaffo brutale alla sensibilità e un maelstrom pernicioso (e incantatorio) di visioni scevre da qualsiasi messaggio che non sia il puro godimento sensuale delle immagini; godimento che D’Amato raggiunge con ogni mezzo, scoprendo i nervi di chi guarda fino a giungere al punto più vivo e doloroso. Emanuelle in America si diverte a maltrattare lo spettatore, ed è forse uno degli esempi più estremi di quello che il cinema ha inflitto al corpo femminile: D’Amato fa della donna l’eroina e la vittima sacrificale, la debole e la sopravvissuta, l’ingenua e la perversa (fino alla bestialità), l’inizio e la fine. Per quanto facciano inorridire le sevizie inflitte alle donne (le sequenze snuff sono insopportabili e spietate, girate con un sadismo che infligge beffardamente una terribile sensazione di vergogna in chi guarda, e sporche nella grana quanto nell’anima), il film trova la sua ragion d’essere nelle contraddizioni, nelle proiezioni fantastiche e nei chiaroscuri di cui viene investita la figura femminile. Le femmine di D’Amato non esistono, sono illusorie esattamente quanto l’immagine cinematografica. La pellicola srotola pulsioni, vizi, incubi, e la donna è lo schermo bianco su cui prende vita un mondo in cui lo spettatore è fagocitato. D’Amato è un cannibale e la donna il suo feticcio, una dea alternativamente da amare, bestemmiare o distruggere.
© Marcella Leonardi