NOVE/16
Potendo tornare indietro agli anni adolescenziali avrei dedicato il tempo trascorso nell’inutilità alla lettura delle grandi opere. Anche quelle dall’aspetto bulimico. La lettura di un’opera va dall’attimo: lettura-nonlettura della sua scoperta, dello sfogliare le sue prime pagine, del leggere le prime righe, sino all’attenzione che riporranno le generazioni future. Ci sentiremo in tal modo come parte integrante di un flusso atemporale.
L’opera, così intesa, sopravvive ai poteri ed è il segno più alto di civiltà. E la responsabilità di non perdersi è nostra. Di nessun altro.
La divulgazione non deve portare il messaggio deviato di cronicizzare gli acquisti a pillole per porci.
Ognuno deve mostrarsi capace di rendersi, per l’appunto, responsabile della propria salute intellettuale. Nella propria memoria non dovrebbe esserci posto per la letteratura a vita breve. La letteratura dovrebbe dimorare nella memoria di un popolo, una sorta di affabulazione culturale. Come quando ci si dava appuntamento nelle stalle per rendersi partecipi di un qualcosa di rivoluzionario.
Ora si è dimorati nel ghetto di quel personale stato virtuale, interfacciato al mondo esterno attraverso crittogrammi da geroglifici sociali.
Non trasformiamo la letteratura nel linguaggio binario degli uni e zeri o in quello morse degli spazi e punti. Sarà di difficile interpretazione anche per noi stessi. La letteratura deve, come dicevo prima, fluire, sempre e ovunque.
Mi sento comunque di dirVi di non prendere pedissequamente per vero tutto ciò che dico, ma neanche per falso. Questo è il primo grado di consapevolezza civile: interrogarsi.
© Raffaele Rutigliano, 2014