FOTOREPORTER
Sa cosa succede quando si fa il fotografo di un giornale per quarant’anni? Due cose… o diventi anche tu una macchina fotografica e registri tutto, oppure è come se si sganciasse il rullino. Non ti resta più niente, non ti impressiona più niente. Immagini, particolari, dettagli… niente. Come fotografare sullo stesso tratto di pellicola, una foto che cancella l’altra. Non mi crede? È così, davvero…
L’uomo fece di sì, con la testa, disse che gli credeva e fece girare una mano a mezz’aria, perché andasse avanti.
Il fatto è che di cose in quarant’anni se ne vedono. Io ho cominciato col giornale che ero un ragazzino, si figuri. Non sapevo fare niente, l’unica cosa che avevo di buono era la macchina, una Leika, che per allora… tutto manuale, naturalmente, perché l’elettronica non c’era. All’inizio facevo la bianca, inaugurazioni, tagli di nastri, cerimonie… poi sono passato alla nera. Dopo una settimana il primo morto. Quella prostituta nel casino di via Bertalia, se la ricorda? No, come fa… lei è troppo giovane. Beh, fu una bella foto. La stanza, squallida, col letto ancora disfatto, in un angolo, le lenzuola di un bianco che sparava, forse troppo. La tizia per terra, con la gola tagliata e tutto il nero del sangue sul pavimento, a fare contrasto. E dietro, la finestra aperta e i tetti del centro, col rosso che nel bianco nero era diventato di un grigio intenso, compatto. Mi ricordo che guardavo soprattutto quello, il buco della finestra al centro della foto, perché sa cosa le dico? un fotografo resta un fotografo anche quando è un fotoreporter di nera e va bene la notizia, va bene il cadavere, va bene tutto, ma prima viene la fotografia. Ho ragione o no?
L’uomo fece di sì, ancora, sempre con la testa. Si strinse anche nelle spalle, per fargli capire che il suo parere non importava ma che andasse avanti, andasse pure avanti.
In quarant’anni se ne vedono di cose. Se le mettessi tutte assieme, le foto che ho fatto, e le facessi scorrere, sarebbe come un film su Bologna. Una Bologna particolare, certo, come la può vedere un cronista di nera, mica la Bologna di tutti. La mia. Per esempio i portici di via Indipendenza, all’alba, con quella luce di un sole che ancora non c’è e non sembra venire da un punto preciso ma diffondersi come la nebbia. Deserti, vuoti, a parte la bicicletta del metronotte ammazzato e la camionetta dei carabinieri sul marciapiede. Credo che saranno stati gli anni ’60, più o meno. O il fumo dei lacrimogeni in via Zamboni, così denso e compatto che le sagome dei celerini si vedevano appena, fuse in un unico blocco nero. O la tangenziale, di notte, con tutte le luci delle macchine che passano sull’autostrada, le macchie giallastre dei lampioni e quella violenta, bianchissima, della fotoelettrica che illumina la macchina accartocciata contro il guard rail. Un film, quasi tutto in bianco e nero, e anche un po’ sgranato, perché quando fai questo mestiere le cose cominci a vederle non come sono ma come appariranno sulla carta del giornale. E poi, all’improvviso, questa cosa di perdere le immagini. Me l’aveva detto anche Veronesi, che era già vecchio quando ho cominciato io… ecco, quello sì che ci starebbe bene nel suo libro sulla storia della fotografia di nera a Bologna. L’ha intervistato? Ah no, che stupido… è morto tanti anni fa. Beh, Veronesi me l’aveva detto. C’è una razza di fotografi di nera che si abitua talmente tanto allo scatto che finisce per non notare più niente. Accade o subito o dopo tanto tempo, ma il fotografo diventa la macchina stessa e registra senza vedere. Forse è una reazione a quello che ti trovi davanti, tutti i giorni. Omicidi, suicidi, incidenti, crolli, esplosioni, feriti, gente che piange, gente che urla. Come si fa, diceva Veronesi, come si fa?
L’uomo annuì ancora. Allungò una mano verso il registratore e lo spense, dicendo che per adesso ne aveva abbastanza e che magari tornava un’altra volta. Lontano, fuori dalla finestra del palazzo, si sentiva la sirena di un’auto della polizia, confusa col rumore del traffico.
Come si fa? Si fa, si fa. Guardi me, per esempio. Io appartengo all’altra razza, quella che continua a scattare guardando, quella che registra e si ricorda tutto. Prenda il tesserino da giornalista che mi ha mostrato lei, per esempio. La foto sotto il nome che sembra la sua faccia ma non lo è. La sua faccia che sembra piuttosto quella che c’era in un portafotografie a casa della studentessa uccisa l’altro ieri e che poi è sparito quando uno sconosciuto è tornato nell’appartamento, di notte. Voleva sapere se l’ho fotografato quel pezzo di appartamento? No, l’ho detto anche ai carabinieri. Però me lo ricordo, me li ricordo tutti i particolari, perché io sono uno di quelli che scatta con gli occhi.
© Carlo Lucarelli
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