Sulla panchina
Ho sempre avuto problemi con la destra e la sinistra e non solo da bambino. Anche ora, molto più che adulto, mi ritrovo a dover riflettere qualche secondo in più, per distinguere un lato dall’altro. Non mi viene istintivo, non c’è niente in me – nessuna funzione innata – capace di farmi orientare con naturalezza nello spazio, specie se si tratta di luoghi molto ampi. Niente di ossessivo o di patologico; solo una sensazione di disagio, la necessità impellente di trovare un riparo, un riferimento, una toilette cartesiana dove scaricare lo smarrimento.
Più conosco la vita e più mi rendo conto che le persone si dividono in due categorie: i tolemaici e i copernicani. E’ sempre una questione di certezze e di punti fermi. C’è chi ha bisogno di essere costantemente al centro del suo universo, con uno stuolo di satelliti al seguito e chi più modestamente si accontenta di girare intorno alle poche certezze che riconosce come tali. Io sono decisamente copernicano. Ho bisogno delle mie stelle fisse: la sveglia puntata la sera, i quadri dritti sul muro, i nodi ben fatti delle cravatte (altrui, se possibile), il calendario sul mese giusto. Disegno traiettorie brevi e incerte e il mio asse è piuttosto inclinato a causa del mio costante equilibrio precario. Sono una pallina lanciata a tutta velocità nel flipper dell’universo, vorrei rallentare, trovare un posto tranquillo dove fermarmi e riprendere fiato. Sulla panchina a fianco del parcheggio dove lascio l’automobile, prima di iniziare il lavoro, per esempio.
Ogni mattina seduto là, c’è un signore, nemmeno troppo anziano; una versione di me stesso con quarant’anni in più. Ciò che vorrei diventare. Vederlo ogni giorno mi dà conforto. Sta immobile, pensoso, con lo sguardo fisso, quasi beato, una specie di Buddha urbano che m’infonde tranquillità quando lo incontro. Dovrei dire “incontravo”. Perché da qualche giorno non è più seduto sulla panchina a fianco del parcheggio. La sua assenza mi rende irrequieto, agita la sabbia che c’è sul fondo dei miei pensieri, accrescendo l’incertezza, la necessità di trovare un riparo.
Forse ha solo cambiato orari, si alza prima o dopo; potrebbe essere ammalato o aver avuto un incidente, o è forse è stato rapito. Ecco, il flipper ricomincia e pure io ricomincio a ondeggiare senza controllo, sbattendo contro pensieri che si accendono a intermittenza e mi danno diritto a un bonus da mille punti di stupidità. Ho perso la mia stella polare, ingoiata da un misterioso buco nero.
Finché questa mattina lo vedo di nuovo, ma non alla solita panchina. No. Lo vedo al bar mentre prende il caffè. E non posso non chiederglielo. Non posso permettere che uno dei miei riferimenti scompaia senza dare spiegazioni.
Ordino un cappuccino e mi siedo al tavolo accanto al suo. Accenno un saluto e poi azzardo timidamente “Si ricorda di me? C’incontravamo sempre vicino al parcheggio la mattina presto, ma poi non l’ho più vista sulla panchina”.
La mia versione anziana mi guarda di traverso, scocciata e risponde: “Meglio qui che sulla panchina, ormai. E’ da un po’ che la ragazza del secondo piano non si spoglia più davanti alla finestra, credo sia andata a vivere con il suo ragazzo. E io che cazzo ci sto a fare sotto il sole?”
Il flipper si è fermato. Game over.
©Anna Martinenghi