Nella notte gelida una mano mi tirò su, in alto, fuori dalla mia branda fatta di rami, e poi mi scaraventò a terra. Ricordo solo questo. Un momento prima dormivo nella baracca, indolenzito per le mie dodici ore di taglio dei larici, e un attimo dopo volavo nel freddo. E poi rammento le urla degli altri (sono nella mia memoria ogni giorno, ogni istante, mi basta chiudere gli occhi): qualsiasi cosa fosse, quel mostro ci aveva presi tutti insieme. Infine, solo il suono del vento e della tormenta. Gli altri due, che come me si chiamavano Giuseppe, li tirai fuori io, al buio, seguendo i loro lamenti. Forse il nostro nome ci aveva portato fortuna, il santo dei falegnami aveva voluto aiutarci. E poi trovai Domenico. Toccai con la mano le sue ossa spezzate che uscivano dalla carne, era svenuto e in qualche modo ce la feci a farlo scivolare via tra le schegge del maledetto albero. Quel gigante lo avremmo dovuto tagliare il giorno seguente, invece fu lui ad abbatterci, precipitandoci addosso.
Feci mettere al riparo i miei compagni dietro una roccia e scesi a valle di corsa. Mi guidava la disperazione e conoscevo la strada, non era la mia prima stagione di taglio in quel luogo. Ero abituato a camminare svelto, di giorno e di notte. Da Modena alla Garfagnana e poi a Livorno, per imbarcarmi verso la Corsica, e finalmente poter lavorare, c’ero arrivato così: a piedi.
Giunsi all’alba e svegliai tutti, urlando e piangendo. La gente del paese salì a ritroso con me, portando i badili per scavare. Corse con noi anche il mio caposquadra, che il giorno prima era sceso per chiedere con un telegramma alla committente, la Tollinchi di Ajaccio, di trasferirci in una zona meno pericolosa. Troppa neve, diceva. Troppo rischio per quei disgraziati degli operai, stare sotto agli alberi. Troppo vento al Col de Vert. Lui era uno esperto, che vedeva lontano.
Ritrovammo solo Rocco, congelato ma vivo. Ci disse che gli altri erano scappati, che lui aveva urlato ma che nessuno lo aveva aiutato, perché quei vigliacchi se ne erano andati via.
Zitto Rocco, zitto che dormono. Dormono tutti.
Eravamo partiti l’11 dicembre 1926 in diciannove. Uno aveva abbandonato il lavoro dopo un mese. Dodici morirono nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1927. Il più giovane si chiamava Leopoldo e aveva 16 anni, Il più vecchio Gaspero e ne aveva 65. Eravamo fratelli, amici, cugini, cognati, padri e fratelli. Eravamo tagliaboschi. Volevamo solo lavorare.
Mi chiamo Giuseppe Stefani, sono nato a Piandelagotti di Frassinoro, in provincia di Modena.