Prima voce
L’alba aveva di nuovo sorpreso Sanya in un letto che non le apparteneva.
La ragazza aprì gli occhi, di malavoglia. La stanza aveva un arredo monacale: il letto era poco più di un pagliericcio e a coprirla dal freddo pungente c’era solo una coperta di lana grossa.
Nell’aria ristagnava uno sgradevole sentore di cibo rancido e umidità.
Sanya pensò che il Vecchio ne avesse fatto un’arte, del portare rancore.
Posò i piedi a terra, con cautela. Tirò un sospiro di sollievo: almeno questa volta era donna.
Provò un moto di disgusto ricordando di quando, invece, si era svegliata in quella chiesa di Parigi: nel corpo di un uomo e, come se questa disgrazia non fosse sufficiente, pure con la gobba!
Il contatto con l’impiantito gelido la fece rabbrividire; si accorse di indossare solo una camicia da notte in tela grezza, logora in alcuni punti. «Pure micragnoso, il Vecchio», mugugnò.
La luce grigia che filtrava dagli scuri non preannunciava nulla di buono.
Scostò le assi di legno, quel tanto che bastava per gettare un’occhiata all’esterno.
L’aria fredda la investì, fugando ogni residua sonnolenza.
Da quel pertugio la vista era splendida, nonostante il grigiore della giornata: la casupola sorgeva su di un’altura; la vallata si apriva allo sguardo in un alternarsi di radure brulle e piccoli boschi, ornati di brina. A fondovalle, una insenatura curva accoglieva la sponda di un lago.
A quella vista, Sanya provò un rimescolio strano, una specie di nostalgia per il posto che un tempo chiamava casa. Ma non poteva essere così: era stata una bambina sola e poco amata.
Casa sua era un villaggio a Nord, sulle montagne; a quelle latitudini la sua capigliatura corvina spiccava tra le teste bionde come una goccia di pece sulla neve fresca.
Anche i suoi genitori erano biondi, così le avevano raccontato. Sulle sue origini, le comari del villaggio avevano tessuto storie pruriginose. La verità era morta con i suoi genitori, divorati da un incendio quando lei aveva solo quattro anni.
La circostanza che solo lei si fosse salvata dalle fiamme aumentò il discredito che le aleggiava intorno. Alcuni dicevano l’avesse salvata una lupa. Altri sussurravano, spuntando per terra, che fosse stato il Demonio, per via di quei suoi capelli color notte senza luna, senza dubbio bruciati dal fuoco eterno.
Una volta orfana, fu Jonas il Guercio a prenderla con sé.
Seconda voce
Jonas viveva in un mondo popolato di ombre e sfumature ma la menomazione non aveva ammorbidito il suo carattere impetuoso e testardo.
Prese la piccola orfana per mano e la portò a casa: tanto bastò ai compaesani, grati di essersi tolti un impiccio. ”Strambo con stramba”, pensarono i più, tornado a dormire fra due guanciali.
«Il vecchio avrà bisogno di due occhi nuovi…», ridacchiarono tra i denti i più temerari, dopo essersi accertati che l’uomo non fosse nei paraggi.
«Avrà le sue buone ragioni» chiosarono altri. Non ci furono altre chiacchere.
Jonas non era un filantropo.
Era stato un giovane uomo, forte e orgoglioso, che amava gareggiare e vincere: ai giochi del villaggio si qualificava fra i primi nella corsa e nel tiro con l’arco.
Amava andare per i boschi. Vi si inoltrava per giornate intere, smarrendo il sentiero e la cognizione del tempo. L’afrore acuto del sottobosco lo inebriava e, nel ventre della foresta, avvertiva una vibrazione che solo lui poteva sentire.
Steso a terra, Jonas si lasciava attraversare da quel suono e si sentiva stupido e felice.
Quando i contorni degli alberi e delle case iniziarono a perdere nitidezza, Jonas avvertì una morsa gelida stringergli le budella. Voltò lo sguardo altrove e diede la colpa alla stanchezza.
La malattia fu paziente: crebbe con lentezza ma fu inesorabile.
Di giorno in giorno, la vista di Jonas perdette un briciolo di mondo, costringendolo a escogitare nuove astuzie affinché nessuno sospettasse che stesse per diventare cieco.
L’uomo allora lavorò duro per crearsi una reputazione a cui aggrapparsi quando non gli sarebbe più stato possibile negare l’evidenza; assecondò il suo carattere impetuoso, affilò la sua lingua tagliente e non divise mai il pane con nessuno, per mantenere la sua indipendenza di giudizio.
I boschi restarono la sua casa, nonostante la foschia nelle sue pupille. Li conosceva come le linee della propria mano e per niente al mondo avrebbe rinunciato al canto della radura. Ma la foresta era un corpo vivo, mobile, che cresceva e mutava. Era come un codice di rune che lui fu costretto a decifrare ogni giorno, tastando con le mani, imprimendosi nella memoria della pelle le scabrezze e i rilievi.
Un tardo pomeriggio d’inverno, una giovane radice lo tradì. Jonas incespicò, come un bambino di pochi anni e cadde, battendo con violenza la testa contro lo spuntone di un ramo.
Perdette e i sensi e iniziò a morire, nel ventre del bosco.
Gli sembrò allora che la porta per gli inferi fosse gelida ma che ogni passo di quel sentiero lo conducesse a un gradevole tepore, diffuso in tutto il corpo. Era forse quello il modo in cui il Demonio seduceva le sue vittime?
Sul far della notte, nel delirio, sentì la Morte alitargli sul collo, un fiato caldo e ferino.
All’alba, la Signora gli leccò il volto, gli lambì le mani, con una lingua umida e spessa.
Jonas si svegliò: al suo fianco, la Mietitrice aveva occhi iridescenti e lo fissava, severa, nel suo manto grigio.
Intermezzo
La lupa lo trovò svenuto, riverso a terra.
Gli si sdraiò accanto e lo scaldò per tutta la notte.
Ai primi bagliori dell’alba, prese a leccargli il viso; quando Jonas fu sveglio, la splendida fiera si alzò con grazia regale tenendo lo sguardo fisso su di lui. Allungò il muso repentina, aprì le fauci e gli diede un piccolo morso, attutito dagli strati di abiti che gli coprivano l’avambraccio.
Jonas avvertì i denti aguzzi sfiorargli la pelle, senza scalfirla, e si domandò se fosse un augurio o una promessa.
La lupa sparì e fu come se Jonas lo avesse solo sognato.
Il tempo passò e l’uomo si scordò della lupa. La malattia ebbe la meglio e Jonas non poté più nasconderla. Si aggrappò alla sua reputazione di saggio e giusto e al suo carattere impetuoso.
Fu grazie alle abilità che aveva esercitato nel tempo che i paesani non lo considerarono un peso ma Jonas avvertì crescere nei suoi confronti un sottile malanimo, il malcelato pensiero che lui, in quanto orbo, non fosse più un intero, ma solo una metà malconcia e non meritasse un pieno rispetto.
Fu così che i suoi paesani presero a chiamarlo il Guercio, per distinguerlo dallo Jonas sano, il figlio di Erich.
Era già il Guercio quando Sanya nacque e ascoltò, non visto, tutte le storie cattive che il villaggio aveva intessuto sulle sue origini e sulla chioma corvina.
Senza vederla, l’aveva riconosciuta per quella che era: una diversa, il riflesso di ogni paura ancestrale, piccola o grande, che albergasse nelle anime di quella comunità chiusa, sui monti del Nord.
L’incendio scoppiò una notte d’estate, afosa come non se ne ricordavano da tempo.
La notizia attraversò il villaggio in un lampo: i genitori erano morti, ma la bimba era illesa.
Le voci si accavallavano, l’una sull’altra, in un fragoroso crescendo disarmonico «È stato il Demonio, è sua figlia quell’anima nera» urlavano gli uni, «No, è stata una lupa, una lupa grigia. È apparsa nel fumo, spingendo fuori dal fuoco la bambina terrorizzata.» replicavano gli altri, le mani aperte a misurare l’ampiezza del dorso della bestia.
Jonas provò di nuovo la sensazione dei denti aguzzi sulla pelle. Si avviò, seguendo il sentore di fumo e il frastuono dei secchi che passavano di mano in mano per spegnere le fiamme.
La trovò davanti le macerie della sua casa, la prese per mano e la portò via, fra gli sguardi allibiti dell’intero paese.
Terza voce
“Jonas crebbe Sanya come una figlia. L’unico suo cruccio fu quello di non averle potuto dare un cavallo bianco.
La notte che Jonas morì, qualcuno bussò alla porta. Sanya aprì e si trovò dinnanzi una lupa grigia, ormai anziana, scortata da uno stupendo purosangue, candido come la neve…”
Il crepitare dei tasti del computer si arrestò di colpo.
Il Vecchio cacciò un’imprecazione soffocata e con un gesto di stizza cancellò la mezza pagina che aveva scritto. Si passò la mano sugli occhi arrossati. Si accese una sigaretta e, perso fra le volute di fumo, si interrogò sul da farsi.
Era giunto a PuntoMorto.
Lo sponsor voleva un racconto strappalacrime sul tema della diversità e dell’infanzia abbandonata.
Sanya, la protagonista, esigeva che nel racconto comparisse un cavallo bianco.
Il Vecchio le aveva detto di sì, che non era proprio inerente, ma in un modo o nell’altro ce l’avrebbe infilato. Ma ora era finito in una secca e no, il cavallo bianco no, non ci stava. Era troppo assurdo, era peggio di una marchetta a favore di un detersivo.
Spese il mozzicone nel portacenere stracolmo e per un attimo accarezzò l’idea di farsi un caffè.
Invece chiamò «Arturo!» e subito comparve una tozza figura piumata: era uno psicopompo malriuscito che gli era avanzato da un precedente racconto. Sulle prime, il Vecchio aveva pensato di depennarlo con un brutale tratto di matita rossa, ma poi ci aveva ripensato: un tramite da Quel Mondo a Questo gli poteva sempre far comodo. Così, taglio e incollò il paragrafò in un nuovo file di testo, e lo archiviò nella cartella “Personaggi futuribili” del vecchio pc.
«Arturo,» ordinò lo scrittore «entra nella storia e porta qui Sanya, in fretta.»
«Veramente, io…» provò a obiettare Arturo, che alle tre della mattina non aveva punto voglia di entrare in PuntoMorto alla ricerca di una NonViva.
«Arturo, vai. O come ti ho creato ti cancello», minacciò il Vecchio, mettendo fine a ogni rivendicazione.
«Obbedisco, Signore», disse lo psicopompo rassegnato. Si avvicinò alla porta USB e si lasciò cadere nel PuntoMorto, in uno sbatacchiare frenetico di ali sbilenche.
Il Vecchio armeggiò con la moka, nell’attesa. Frequentava Sanya da un mese e ancora non sapeva se le piacesse il caffè. Anzi, non sapeva neppure se a Distopia ci fosse il caffè. Si prese un appunto mentale, per approfondire in seguito la questione. Gli era balenata un’idea per una collaborazione con…
«Mi hai mandata a chiamare, Vecchio»? Lo sportellino del lettore CD era scivolato dolcemente sulle sue guide e Sanya ne era discesa con un balzo.
«Buona sera, Sanya», disse lo scrittore sottolineando con intenzione la scarsa educazione della ragazza. «Sì, ti ho convocata. La farò breve, perché è tardi. Siamo finiti a PuntoMorto, per…»
«Siamo»? lo interruppe Sanya, aggiustando la scollatura che mostrava una coppa D piena, con fare malizioso.
Lo scrittore prese un appunto mentale sull’eventualità di dotare la ragazza di una più modesta coppa C e di maggior creanza, sbuffò irritato e proseguì nel discorso: «Vedi cara, nella storia il cavallo bianco storpia, non si incastra, non buca! Quand’anche uscissimo al piccolo trotto da PuntoMorto ci troveremmo subito impantanati nelle sabbie mobili dello Stucchevole. Rischiamo il tracollo.»
Sanya squadrò Il Vecchio con uno sguardo cupo, ma il narratore non si lasciò intimorire e proseguì calando l’asso: «Ma se proprio ci tenessi a una cavalcatura, potrei fornirti di un drago, alato! Nuovo di pacca, mai usato. Ti lascio decidere il colore. Lo vuoi bianco? E te lo creo bianco. Lucido, opaco, satinato, a puntini…»
«Un drago? Mica sono San Giorgio, che me ne faccio di un drago! Voglio il cavallo e lo voglio bianco e lo voglio su-bi-to» urlò Sanya,
«Il cavallo no» urlò lo scrittore.
«Il cavallo sì» sbraitò la ragazza, pestando i piedi per terra con veemenza.
Il Vecchio perse la pazienza, spintonò Sanya verso il computer e le urlò: «Apri bene le orecchie, ragazzina! Mi basta schiacciare due tasti e ti spedisco in un Altrove così brutto che rimpiangerai in eterno di avermi fatto incazzare.
Pensaci, mocciosetta! Ogni giorno un Altrove diverso, senza famiglia, senza amici.»
Scandì le ultime parole come se fossero una fatwa, spingendo la ragazza un po’ più del dovuto.
Sanya perse l’equilibrio e cadde oltre il bordo dello schermo, sparendo nel buio del PuntoMorto.
Lo scrittore fu preso dal panico, si avvicinò alla tastiera urlando termini irripetibili e pigiando sequenze di tasti a caso.
Ma ormai, però, era troppo tardi: il buio cibernetico l’aveva ormai ingoiata.
Il vecchio si gettò sul letto disperato, e presto fu preda di un sonno agitato, popolato di psicompompi ammutinati e ragazzine che lo rincorrevano brandendo lame affilate.
Epilogo
Sanya non riusciva a pensare. Aveva urlato così forte che ora le sembrava che il cuore le battesse nelle orecchie e quel suono inquietante si mescolava alle grida del Vecchio che la incalzava, spingendola verso lo schermo a cristalli liquidi.
Più si avvicinava e più la ragazzina si rimpiccioliva, per effetto della forza magnetica che legava i NonVivi a Distopia.
Ancora pochi passi e le sue dimensioni sarebbero state giuste, per tentare di salvarsi.
Toccò con le gambe il bordo inferiore dello schermo e finse di perdere l’equilibrio.
Si lasciò cadere all’indietro e sperò di aver contato i tempi nella giusta maniera. Iniziò a sprofondare, contando. Milleuno, milledue, milletre, milleq… in un soffio, la spira multicolore del salvaschermo l’agguantò accompagnandola negli avvitamenti di una lenta caduta.
Le parve di precipitare per un tempo infinto, in un caleidoscopio di colori e di suoni.
Era stanca, sentiva le palpebre farsi pesanti e il suo corpo quasi dissolversi. Si abbandonò al sonno, certa di avercela fatta.
Planò su di un cumulo di materiale morbido e cedevole. Un sedime di errori di battitura, parole cancellate, parentesi aperte e mai chiuse l’accolse e cullò il suo sonno, conducendola ad Altrove.
Sono passate infinte stagioni da quella notte.
Ogni notte una routine programmata in automatico dal computer del Vecchio rinnova la sua maledizione e ogni giorno Sanya si risveglia in un mondo diverso.
Ha avuto innumerevoli nomi e altrettanti volti. È stata uomo, ragazzo, bambina.
Ha conosciuto il vizio e l’estasi più pura, ha cavalcato cavalli, draghi e guidato areoplani.
Certe sere, quando non riesce a prendere sonno, si arrampica in alto, fino a raggiungere il bordo dello schermo.
Allora urla con tutto il fiato che ha nei polmoni, urla e chiede di essere liberata da quella dannata vita eterna. Al termine delle giornate più dure chiede solo che la lascino morire.
Le sue grida si insinuano nelle fessure, fra le guarnizioni consunte di quel vetro che separa i due mondi; sono piccoli spasmi di orrore, che attraversano l’etere, si gonfiano, si infilano nei sogni placidi degli scrittori, nelle loro fantasticherie a occhi aperti e vi seminano storie.
È così che nascono gli incubi, lo sai?