Sei del mattino. Il sole debole di aprile si insinua tra i platani spogli del viale, fino al finestrino semiaperto e alle mie dita che tamburellano nervose sul volante. Seguo con occhi distratti le volute azzurre di fumo risucchiate fuori dalla fessura. Sono qui da quasi mezz’ora e Gio ancora non si vede. La mia Gio, scherzavamo tanto tempo fa. Abbreviativo del suo nome, ma anche di gioia, come la chiamavo nei momenti di tenerezza e sui messaggi clandestini. Scuoto la testa, butto fuori il fumo e mi guardo intorno.
La cancellata pretenziosa, riflessa nel vetro impeccabile di questo condominio tutto professionisti e manager, dove si è rifugiata ospite dei suoi, sonnecchia nell’ombra non ancora insidiata dal sole. Nella striscia del controviale di erba stenta e cartacce assortite, soltanto un barboncino con un vecchietto, che aspettando i comodi dell’animale nota l’auto e si ferma a guardare.
Cazzo vuole questo. Gli scocco addosso la mia migliore occhiata fatti-i-cazzi-tuoi, ma il vecchio non se ne dà per inteso. Sto per abbassare il vetro e tradurre l’occhiata in parole inequivocabili, quando Gio arriva.
Accosta lenta, cercando parcheggio. Al solito, guida come vive, sempre distratta, sempre pensando ad altro, sempre in ritardo di un fotogramma sullo scorrere della vita.
Guarda verso il viale, mi oltrepassa senza vedermi. Il viso allungato di lato, concentrata, trova un posto più avanti, tra un furgone giallo e un SUV con gli adesivi di un golf club.
Quando è davanti al cancello e sta frugando nella borsetta per le chiavi, alza gli occhi e mi trova lì.
La prima reazione è di paura. Si vede da come stringe la borsetta e si assesta sulla spalla lo zainetto, tentando di nasconderlo alla vista.
Non devo essere un gran bello spettacolo: ho gli occhi gonfi, sono quasi trenta ore che non dormo, ho addosso una specie di trench stropicciato e informe, che stride con le scarpe eleganti ancora inzaccherate dal temporale di ieri. La pashmina che mi ha regalato a Natale è uno straccetto stazzonato mezzo dentro e mezzo fuori.
Impiega tre secondi per abbracciare tutto con un’occhiata e altri due per stringere le chiavi tra pollice e indice, evitando i miei occhi. Ora però alla paura si somma altro, forse imbarazzo, forse compassione. Schiude le labbra per dire qualcosa – un lampo roseo di lingua che compare e scompare – ma ci ripensa, gli occhi sfuggenti agganciati alle crepe del marciapiede. Scosta con le dita la frangetta, che come sempre le ricade in avanti. È nervosa e ha l’aria stanca. Si vede dalla postura curva, dal tentativo patetico di tenere lo zainetto con il cambio di biancheria e un beauty kit essenziale nascosto dietro la schiena. E poi la piega amara delle labbra e le piccole rughe ai lati degli occhi, non abbastanza mimetizzate dalle sapienti dosi di fard che tante volte le ho visto applicare la mattina presto, quando lasciava il mio letto per tornare a casa dal marito.
Come oggi.
Solo che oggi il letto non era il mio. Ed è per questo che ha paura, la mia Gio. Paura di me. E fa bene.
Metto la mano in tasca e stringo la bottiglietta. Ho fatto le prove, ho calcolato che non impiegherò più di cinque secondi, ad aprirla e gettarle in faccia l’acido. Ho la gola secca e le tempie che rimbombano, i muscoli tesi come una corda di violino, ma è una scena programmata in tutti i dettagli, vista e rivista mille volte. Trattengo il respiro, raddrizzo le spalle, stringo le dita sudate sul vetro e intanto la osservo, come si osserva un batterio sul vetrino del microscopio. Il linguaggio non verbale è muto ma inequivocabile.
Ha l’aria turbata, oscilla sulla punta delle scarpe da ginnastica che spuntano da sotto i jeans e si mordicchia un labbro, come fa sempre nei momenti di tensione. Esita un momento, poi si avvicina, allunga la mano, piega la testa, mi guarda negli occhi. E lascia partire una dolcissima interminabile carezza, che mi sfiora l’orecchio e scende sulla guancia. Con il tocco sapiente delle dita sistema la pashmina spiegazzata, poi sempre fissandomi chiude gli occhi per un lungo momento, in un addio muto.
Io resto immobile, mentre una vampa di calore mi attraversa e un groppo di rabbia mi invade la gola e mi blocca il respiro.
Dopo, succede tutto in fretta.
Metto la mano in tasca, stringo la bottiglietta, ma le dita scivolano sul vetro, si impigliano nella fodera. Sudo, sento le gocce calde colare dalla fronte sulle guance. Lascio andare un’imprecazione e tiro forte. Il crac della stoffa si confonde con il ringhio del barboncino sfuggito al vecchietto, una massa nera frenetica e rabbiosa a un centimetro dal mio polpaccio.
Io d’istinto sussulto e arretro, la bottiglietta mi scivola tra le dita e un attimo dopo è una chiazza verdastra e fumante sulla pietra grigia.
Il vecchio arriva senza affrettarsi, raccoglie impettito il guinzaglio con occhi sospettosi, trattenendo il cane che continua a ringhiare.
Lei intanto è andata, la sua figura sottile scivola ignara oltre i vetri dell’atrio.
Io rimango immobile, pietrificata, gli occhi smarriti sul luccichio beffardo dei frammenti di vetro sulle mie tacco dodici rovinate, il mascara che mi cola in rivoli neri sulle guance. Gli schizzi roventi che bucano le mie inutili autoreggenti e mi scavano la pelle fanno meno male della consapevolezza che stavolta è finita davvero.
© Euro Carello, 2021