Ci sono poeti che sanno parlare alla nostra ombra, la loro parola sosta a metà strada tra il corpo e il suo fantasma e lì resta, prossima sia alla vita che alla morte.
Paul Celan era tra questi, un poeta capace di entrare nell’assoluto con la stessa naturalezza con cui noi varchiamo la porta delle nostre case.
La prima volta che incontrai la sua parola fu come se una spiga di grano mi frustasse il costato. Da ogni verso di Paul parte un colpo di dolore e grazia, la sua poesia scuote il nervo umano per svegliare la vita che dorme e latita.
Lui ci vuole presenti, non ammette chi sceglie la scomparsa.
Poeta rumeno ebreo, di madrelingua tedesca, nato a Cernauti nel 1920 e morto a Parigi nel 1970, Celan ritiene che la poesia debba essere “un messaggio in bottiglia”.
Immaginatevi quindi le sue parole scritte sopra un foglio arrotolato e messo dentro una bottiglia di vetro, un vetro magari di quell’azzurro tenue che si confonde con l’acqua del mare, una poesia che prende il largo spinta dai venti, dalle correnti e dagli umori del mondo.
E in questa poesia-messaggio troviamo la speranza di un approdo nelle mani dell’altro, qualcuno che la raccolga, uno tra noi.
Celan scriveva augurandosi forse che i suoi versi passassero dal collo stretto di una bottiglia al palmo largo di una mano, come partoriti da un grembo di vetro e destinati ad essere figli del padre e della madre prescelti.
Chiunque può essere madre e padre della poesia, basta entrare con i piedi nell’acqua, allungare le braccia e farsì che le proprie mani divengano riva e approdo.
La parola di Celan è pronta a sbarcare sui palmi di tutti.
Ricordo che da bambina mi piaceva andare a caccia di stupori sulla spiaggia, cercavo conchiglie e vetrini colorati e poi li infilavo in un sacchetto di plastica, era il mio bottino delle meraviglie.
E Celan con le sue parole crea la meraviglia, quella fatta di materia povera, residui e scarti che restano e proseguono i respiri e i passi interrotti.
E’ una poesia che marcia e non si ferma, inventa di continuo orizzonti per andare avanti, non importa dove, conta il movimento verso qualcosa che prima o poi accadrà, qualcuno che presto o tardi sarà.
Paul conosce la ferita insanabile e la morte ingiusta, vive la deportazione nei campi di lavoro in Romania, perde i genitori catturati dai nazisti, assiste al terribile dell’uomo che respinge l’umano, si dispera e vaga per le strade dei giorni rasentando i muri della follia.
Nel 1962 arriva il primo ricovero in clinica psichiatrica, la sua testa non contiene più la piena del dolore, sgocciola ovunque per guasto idraulico.
Eppure, proprio in questo periodo, scrive le poesie più potenti e intense, mette tutta la sua vita dentro la parola e non smette mai di cercare gli occhi e le mani degli altri.
Ci cerca allo sfinimento Celan, oltre il punto ultimo.
A noi, il compito di farci trovare.
(A chi sgorga il sentito dall’orecchio)
A chi sgorga il sentito dall’orecchio
e scorre per le notti:
a lui
racconta ciò che hai origliato
dalle tue mani.
Le tue mani migranti.
Non hanno cercato
di afferrare la neve verso cui
crescevano i monti?
Non sono discese
nel cuor palpitato silenzio dell’abisso?
Le tue mani, le viandanti.