Pensa se fossimo davvero andate in Grecia. Con quel trolley zeppo di roba inutile, io; il tuo zaino Invicta e due costumi dentro, le ciabatte infradito da indiana da metropoli e quella maglietta lunga che fa anche da vestitino, tu. Forse davvero poteva cambiarci le cose, e sì che te l’ho chiesto: partiamo ora, subito. Mi hai sorriso come sai fare, come fai anche adesso.
Sorridi sempre, tu.
Hai alzato una spalla come quando non vuoi contraddirmi, è troppo tardi, come si fa a partire ormai, hai detto senza dire.
Ti sei truccata in macchina al volo, così lui non vede. Ho intravisto le salviette struccanti che sbucavano dalla borsa di lavoro, tra il tablet e la valeriana in compresse e sono diventata piccola e muta. Abbiamo fatto in fretta come mi hai chiesto, abbiamo ordinato il più stucchevole dei drink, quello con più coloranti che alcol, e l’alcol non era poco.
Dopo il secondo squillo hai fissato il cellulare, non hai risposto e mi hai guardato come per sbattermi in faccia l’ultimo briciolo di indipendenza.
La seconda chiamata persa ci ha bruciato quella serenità rimediata al volo: un tavolino tra il Corso e la via Marina dentro un tardo pomeriggio, col sole basso e scarlatto.
Alla terza chiamata hai risposto, abbassando il volume, pigiando in fretta quei minuscoli tasti laterali che non ne volevano sapere di farsi trovare; ti sei alzata per non far sentire agli altri le urla. E da lontano mi hai sorriso.
Avrei dovuto dirti qualcosa, che cazzo hai da sorridere, mollalo, invece mi sono depositata sul fondo del bicchiere assieme ai residui di limone, torbida e atterrita.
Perché in fondo che palle la migliore amica femminista, quella che ti assilla se lui non ti fa più uscire in minigonna, o con gli amici maschi. Maschi, hai detto, usando il suo termine da quattro soldi, la miseria di un giudizio che timbra come animalesco un sesso diverso dal nostro. Mi spiegavi che non c’è nulla di male ad assecondarlo, non c’è nulla di male a fare delle scelte per amore; lo sostenevi con forza e poi mi sorridevi; come fai ora.
Sorridi sempre tu.
Con questo stupido vetro in mezzo che ci divide, sottile ma robusto quanto basta per non farti accarezzare.
Ha esitato a portarti al pronto soccorso, non si fidava dei dottori, delle loro mani invadenti, capaci di toccarti dappertutto con la scusa di. In un ospedale così sporco del sangue degli altri, insozzato di odori che salgono dalle narici per arrivare alla gola fino quasi a inghiottirli, un luogo oscuro e tetro agitato da lamenti che sembrano ombre arrivate dietro le spalle a scuoterti. Ha esitato anche nel recuperarti dal bordo del dirupo come atto finale, giusto per provare a salvarti così, come si può.
Ché se fossimo andate davvero in Grecia, vedi, io non avrei tutto questo tempo da perdere con te, ogni giorno, seduta sulla sedia pieghevole di plastica che il custode mi presta, tu ricomposta dentro una scatola, nascosta dal vaso di garofani in plastica, la foto a mezzobusto col vetro opaco di polvere, a sorridere.
Perché lo vedi? sorridi sempre tu.
Sorridi sempre.