Mia madre è questa ferita a cielo aperto
senza riparo, che non smette mai di sanguinare.
Mia madre che aspetta ancora, inconsolabile, una carezza
da quando era bambina
da una madre che era una ferita a cielo aperto.
Le madri che sgocciolano lacrime
e lanciano ami che ti pescano sempre
anche quando pensi di esserti ben mimetizzata
tra altri pesci.
Le madri, basta un colpo di tosse, un sussurro
e ti fanno tornare piccole e tremanti.
Basta una torta o una vecchia canzone
che ti vien voglia di farle volteggiare, senza pensieri.
Le madri hanno armi nascoste con le quali colpiscono
per ricordarti che esistono,
e tu vorresti ricordare loro che è impossibile dimenticarle
ché ti hanno messa al mondo con questa ferita aperta,
che non smette mai di sanguinare.
B.G., 2018
(Da Caduta dentro un no, Barbara Garlaschelli. 2020, Morellini editore)
Il trucco è non voltarsi indietro. Un piede dopo l’altro, continuare senza soste, nemmeno la più piccola.
Mai voltarsi. Mai fermarsi. Mai far coincidere il desiderio con la necessità.
Lo sente dietro di sé. Contiene tutti i canti delle sirene dei secoli nei secoli, amen.
Lei prosegue a piedi nudi, la sabbia che affonda sotto il suo peso, le orme che segnano la distanza, sempre maggiore mano a mano che avanza.
Non vuole imitare Ulisse. Ulisse non aveva la più pallida idea di cosa significasse resistere davvero. Ulisse era un uomo. Le donne resistono da millenni al richiamo delle sirene, e vengono legate non certo per essere protette dal desiderare. Sono loro le sirene. Sono loro il desiderio. Vengono legate per smettere di cantare il desiderio a uomini che lo vivono come un pericolo. Il desiderio è l’espressione più pura della libertà. Ma il desiderio deve scomparire. O meglio, essere riservato agli uomini.
Cammina, un passo dopo l’altro, mentre dietro il canto si fa più forte come se quel suo allontanarsi decisa sia la peggiore delle provocazioni.
Quanto lo aveva amato. Quanto. Al punto di perdersi, di essere sbattuta contro le rocce come un’onda, con la differenza che lei non era fatta solo d’acqua ma di carne e ossa e sangue. Non possedeva l’elasticità di un’onda né la capacità di dilatazione dell’acqua. Il suo corpo, per quanto ben allenato, si schiantava contro le rocce aprendosi, ferendosi, arreso alla forza di gravità e alla sua violenza bruta.
Le rocce cambiavano forma e diventavano di volta in volta pugni, sberle, porte contro cui lanciarla, bastoni con cui colpirla, gradini contro cui farle schiacciare il viso, scale da dove lanciarla. La forma mutava ma il senso no: ciò che lui voleva era la sua disgregazione. Il risultato finale doveva essere guardarle il sangue uscire dalle ferite, i lividi sbocciare come violenti fiori su tutto il corpo, le lacrime colare lungo il viso mischiandosi al muco in un’umiliazione finale, muta.
Un passo e un altro ancora. Ritirarsi non è fuggire, fuggire non è arrendersi.
Un passo dopo l’altro anche se dietro si lascia una parte di sé, qualcosa di molto amato. Amare non ha niente a che fare con il bisogno. Amare non è dare e ricevere. Amare è bastare a se stessi per poter diventare davvero liberi.
Gli aveva creduto. All’inizio. Gli aveva creduto. Come non farlo quando due occhi ti guardano quasi a nutrirsi di te? Quando pensi di essere nettare, è in quel momento che gente come lui comincia a mangiarti.
Le stringeva le mani stordendola di parola e di promesse.
Perché dopo gli occhi arriva sempre la bocca. Che parla, bacia, sfiora, racconta, mente, sorride.
E così era caduta dentro un suo sorriso. Ricordava con esattezza quando era accaduto. Appoggiato sulla sua Mercedes bianca la fissava mentre lei immobile a un passo da lui teneva lo sguardo basso sulla strada sterrata. Gli occhi della gente le pesavano sulle spalle. Al suo Paese un corteggiamento doveva essere pubblico per acquisire verità e rispetto. Tutti dovevano vedere. E tutti avevano visto. Lei, bella coi capelli neri che disegnavano onde sulla sua schiena eretta in una posa di dignitosa eleganza; lui, con un sorriso da poker fasullo e un’auto splendente.
Una coppia perfetta.
Cammina senza sosta, lenta. La lentezza è forza. Si fugge anche rallentando il tempo, godendosi l’aria salmastra sulla pelle, con la paura che si scioglie mentre dietro il mare ruggisce e la chiama.
Anche lui la chiamava. E le prime volte aveva la voce del mare quando di notte è calmo e le piccole onde muoiono sulla battigia e resuscitano ritraendosi, tornando a essere mare.
La chiamava i dashur. E lei scivolava dentro quel tesoro come fosse acqua fresca e pulita.
La chiamava dashuria ime. E in quell‘amore mio lei intrecciava progetti che contemplavano un altro Paese, un’altra casa, un’altra vita.
Tutto era cambiato quando il cambiamento era iniziato davvero. Era stato sincero solo in quell’occasione, quando le aveva promesso un altro Paese, un’altra casa, un’altra vita. Aveva omesso i colori con i quali l’avrebbe dipinta, la nuova vita. Rosso, viola, nero. Aveva scordato di dirle che sarebbe stata sempre notte, dentro e fuori e che i suoni non sarebbero stati quelli delle canzoni che le cantava all’inizio.
La sabbia è fredda al mattino. Nessuno dovrebbe credere a chi ti canta canzoni senza stonare mai, senza nessuna sbavatura d’emozione.
Invece, gli aveva creduto. Aveva creduto alle canzoni, alle parole, agli occhi e alla bocca. Solo quando era arrivato il primo schiaffo non gli aveva creduto. Non era possibile. Quello non era lui. Non gli aveva creduto nemmeno al secondo seguito da un calcio. Quello non poteva essere lui. Era l’alcol, era la mancanza di lavoro, era la cocaina, era che era orfano. Poi, al pugno in faccia, aveva creduto che fosse lei quella sbagliata. E così via: lei che non capiva la nuova lingua; lei che non era ancora riuscita a trovare un lavoro; lei che non puliva bene casa. Lei. Lei. Lei.
Mantiene lo sguardo fermo davanti a sé. Non deve distrarsi. Distrarsi è quello che ci fa deragliare. Che non ci fa cogliere i particolari. Che non ci fa concentrare sui dettagli.
I dettagli, proprio quelli le erano sfuggiti, accecata da ciò che aveva voluto vedere a tutti i costi. Resa cieca dall’essere stata scelta da lui: bello, ricco, con una macchina nuova fiammante e che voleva portarla via da quella terra dura e arida, da quella casa spoglia e ammuffita.
Colpa sua. Era colpa sua. Anche le botte che aveva ricevuto per anni erano colpa sua. Anche quando l’aveva fatta abortire a calci, e poi violentata per avere un altro figlio. E poi picchiata perché non aveva saputo dargli un maschio.
La chiamava i paaftë, inetta.
Eppure quella piccola creatura nata dopo tutto questo dolore indicibile, le aveva trasmesso la forza del mare. La fissava con i suoi occhi scuri, liberi da colpa, profondi, senza domande né risposte. La fissava mentre se la stringeva addosso e la cullava in silenzio. In silenzio come ogni altra cosa che faceva, sperando che lui si dimenticasse della sua esistenza. Ma non se ne dimenticava mai. Le sue mani sapevano dove trovare i punti che facevano più male, e colpivano, senza tregua.
Lui aveva voluto chiamarla Alma, come sua madre; ma lei, dentro di sé, la chiamava Falas, Libera. E, una mattina di novembre, mentre si asciugava il sangue dal naso dopo una nuova costellazione di pugni, glielo aveva promesso, senza proferire parole: «Tu sarai libera». Non le importava quanto le sarebbe costato, forse la vita, ma sua figlia doveva essere Libera.
Il mare adesso è più lontano. Lo ha amato tanto ma lo abbandonerà. Davanti a sé c’è un altro Paese, un’altra casa, un’altra vita. Mai più botte. Mai più una stilla di sangue.
Avanza, la schiena dritta, i piedi che sanno dove andare, gli occhi che sanno cosa guardare, le orecchie che sanno cosa credere, la bocca che conosce le parole nuove e giuste. La mano che stringe un’altra mano. Piccola, calda, rassicurante.
Libera.
©Barbara Garlaschelli, 2018 ispirato a un quadro di Chiara Di Domenico
Racconto tratto dall’antologia Unidici
A cura di Paola Pozzi e Francesco Di Domenico, ediz. Frame Ars Artes