Tutto sommato non è stato granché. Un po’ di sangue qua e là, ma neanche troppo, qualche lamento subito soffocato dall’ultimo colpo alla nuca, venti secondi di tremito sul parquet del soggiorno e via, tutto finito. Più veloce di una sigaretta. E poi dicono che ammazzare è un’esperienza terribile, una cosa che ti segna per la vita. A lui non ha fatto quel grande effetto. In fondo era preparato, anche se galline e conigli non sono proprio la stessa cosa. Un’idea di cosa aspettarti, però, te la danno.
La cosa più difficile è stato il dopo: avvolgere il corpo nel telo di nylon, sigillarlo col nastro, trascinarlo fino al furgone, caricarlo, portarlo a spalla fino lì in cima.
Chi l’avrebbe detto che sarebbe stato così pesante? Sembrava una capra rinsecchita, invece l’ha fatto sudare. Quando gli è scivolata – accidenti al nylon –la testa contro il paraurti, il tonfo è sembrato quello di un gong.
Mentre pensa, continua a scavare, piegandosi in avanti, premendo l’anfibio sul bordo della pala per riuscire a penetrare nella terra dura. Butta l’occhio all’orologio: già quasi mezz’ora, e così a occhio ne avrà ancora per un po’. Almeno altri dieci minuti.
Si alza, si passa la mano sporca di terra sulla fronte sudata e riprende di buona lena.
Sulla schiena, l’umido della maglietta sudata.
“C’è un po’ di vento, speriamo che non mi venga un raffreddore”, pensa. “Potevo almeno portarmi una bottiglia d’acqua, cazzo”.
Al pensiero della birra gelata che lo aspetta si passa la lingua secca sulle labbra screpolate.
Finito il lavoro, lascia andare ancora qualche colpo sulla terra smossa, di piatto, senza convinzione, distratto dal rombo di un tuono lontano.
Dopo butta via la pala, si china e raccoglie il soffione, rimanendo incantato di fronte a quella sfera semi trasparente che gli trema sulla pelle. Chiude la mano e sente il solletico sul palmo. Quando la riapre, i semi volano via, subito dispersi nell’aria di pioggia che pizzica le narici.
Resta un momento lì in piedi, fermo, gli occhi socchiusi, ad ascoltare il soffio del vento tra le dita.
Poi sospira forte e cerca con gli occhi giù in fondo, oltre gli alberi, quella macchia chiara: la casa della nonna. Anzi, la sua, adesso. Niente più vecchie a scroccare il tè, niente più pomeriggi a blaterare di quanto era brava e buona, niente più passeggiate in giardino tre volte al giorno.
“Sono libero”, pensa. “Finalmente.”
Porta indietro le spalle per sgranchire i muscoli indolenziti e si china a raccogliere la pala. Cerca in tasca il contatto rassicurante delle chiavi, guarda la medaglietta con il nome sul palmo sporco di terra e scuote la testa.
«Come cazzo ti è venuto in mente, nonna, di scrivere nel testamento che mi avresti lasciato la casa con il vincolo di badare alla cagnetta?»
Lancia un’occhiata di sbieco alla macchia di terra nera che presto l’erba ricoprirà, si massaggia l’incavo della spalla e sputa nel prato.
«Altro che cagnetta, almeno quaranta chili, era».
© Euro Carello, 2020
©Soffione, foto di Giampaolo Poli, 2020