Lo sguardo basso, assente, privo di espressione. Da quando è tornato è così a tutte le ore del giorno. Non dice quasi più nulla, risponde a fatica quando mia madre e io proviamo a parlare con lui. Il suo grande appetito ridotto al digiuno. È qui, ma è come se non ci fosse, e sì che dovrebbe essere felice di esser vivo, dovrebbe mostrare almeno un po’ di sollievo. Dopotutto è sopravvissuto.
Mi sono appena alzato. Mamma mi ha svegliato prima di andare nel tinello a stirare i panni. «Parlaci tu», mi ha detto. Come se fosse facile. Entro in cucina; papà è lì, seduto al tavolo con lo sguardo fisso sul cielo grigio al di là della finestra. Sta bevendo il tè dalla tazza che stringe in mano.
«Ciao, papà. Come stai?» Non so cos’altro dire.
Ruota lentamente il capo, mi guarda in tralice. «Come vuoi che stia?»
«Beh, dovresti stare meglio, dopo quello che hai passato.»
Posa la tazza di tè sul tavolo.
«E cosa c’è di buono nell’essere vivi?»
Non so cosa rispondergli. Mi riprendo a stento: «Ti avevano dato per spacciato. Sei tornato a vivere. Dicono che quando si è stati a un passo dalla morte, si dovrebbe apprezzare davvero quello che la vita ti offre. Tanto o poco che sia.»
Mi fissa come se di fronte a sé avesse un alieno. «Mi piacerebbe poterlo fare.»
Mi siedo all’altro capo del tavolo. «E che cosa te lo impedisce?»
Chiude gli occhi, come se stesse pensando. Li riapre, mi guarda.
«È il contrario. Non provo più le cose come una volta.» Sembra che con queste parole abbia chiuso il discorso, ma oggi è più loquace del solito.
«È come se, come se avessi perso l’anima…» Fissa lo sguardo nella tazza semivuota del tè. «Adesso, invece, è come se i sentimenti, le emozioni, appartenessero a qualcun altro. Riesco a capire la gioia tua e di mamma nel vedermi tornare a casa; la vostra tristezza quando non riuscite a comunicare con me; la vostra rabbia quando sembra che non me importi nulla… ma io non sento niente, non provo più niente. Capisco di causarvi dolore, ma… non lo sento. Le cose sono cambiate. Io, sono cambiato. Tu non hai visto tutta quella morte. Sale intere di gente attaccata al respiratore come se quella fosse l’unica speranza. Sai quanti ne hanno portati via? Sai quanti ne sono morti intorno a me?»
Non posso evitare di fissarlo.
«E sapere che prima di me, dopo di me, ci saranno altre centinaia, migliaia di morti. Giovani, anziani. Quanti? E io? Io perché ce l’ho fatta? Cos’avevo io, meglio di loro? Cos’ho fatto per meritarmelo?»
Sono annichilito. «Non devi pensare così» dico, ma la mia è una flebile protesta.
«Non si tratta di pensare. Si tratta di sentire. E io non sento più nulla. Potrai mai perdonarmi per questo?»
Lo guardo. Non ho più nemmeno una parola. Che cosa potrei dirgli ancora? Mi alzo, mi verso del tè, esco dalla cucina, entro in sala, alzo la portafinestra, mi lascio cadere sulla sedia nell’angolo del balcone. Sotto, qualche rara automobile percorre la strada. Un ciclista con la mascherina si affanna a pedalare con fiato corto. In lontananza si odono sirene di ambulanze. Il virus mi ha restituito mio padre. Lo ha risparmiato. Mi ha restituito il suo corpo, intatto. Ma non mi ha restituito il suo sorriso. Non mi ha ridato i suoi abbracci, le sue pacche sulle spalle, le sue battute, il suo appetito a tavola, la sua voglia di vivere. È qui, che si aggira per casa, vivo solo in apparenza. È solo un corpo, un involucro. Solo quello è rimasto.
E adesso cosa dirò a mamma?
©Heiko H. Caimi, 2020
Foto presa da Pixabay