Partendo dalla suggestione del film Rashomon di Akira Kurosawa abbiamo preso una fotografia scattata da Viviana Gabrini e alcuni Sviaggiatori hanno raccontato una storia interpretando l’immagine a modo proprio.
Il risultato è sorprendente. Perché ogni cosa è vista con i propri occhi e ciascuno di noi ha una sua narrazione della vita e di ciò che vede, anche se l’immagine è la stessa.
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La foto spunta fuori da un quaderno grande e ingiallito.
“Inglese”, c’è scritto sulla copertina. Dentro, gli appunti di papà, l’incanto della sua calligrafia minuta, un corsivo che pare stampato, un procedere ordinato.
Sono i giorni in cui si vuota casa, si comincia a buttare via le sue cose. Cose. Non papà, solo delle cose.
Filippo prende grandi manate di roba dai cassetti, ne fa dei mucchi ordinati: la burocrazia a destra, i tessuti (abiti, fazzoletti, biancheria) a sinistra.
Al centro, un secchio: per oggetti non identificati, per avanzi di chissà che, per quelle calcificazioni che si ritrovano solo nei cassetti.
La foto cade tra noi, Filippo è già pronto, la sta mettendo nel secchio, siamo bravi coi rifiuti.
No, caro fratellino, questa non la puoi buttare via. Ora ti racconto quello che non sai: non ti si vede, nella foto, c’eri e non c’eri.
Era pomeriggio-quasi-sera di una fine di ottobre, ed io ero ancora la principessa, unico gioiello di papà e mamma, lei a tenermi per mano, lui a sobbarcarsi come sempre il peso delle compere, infastidito dalla presenza dell’ombrello. Odiava gli ombrelli, te lo ricordi? Gli piaceva bagnarsi, gli piaceva la pioggia, si sentiva pulito. L’ombrello era presente solo per obbedire alla mamma. Lei lo guardava, e sorrideva. Lui si accorgeva dei suoi sorrisi e si rilassava. Io, in mezzo, spostavo lo sguardo tra i due e saltellavo. Era un giovedì e io mi preparavo alla festa.
Tu non te lo ricordi, il giovedì. Quando sei nato mamma ha smesso di lavorare, ma con me no, con me andava in ufficio tutti i giorni ma non il giovedì, era il suo giorno di riposo e si usciva: papà, quel giorno, faceva il primo turno, alle tre era a casa, di corsa sulla Seicento, poi in centro, si poteva ancora parcheggiare in corso Vittorio Emanuele.
La Rinascente: era il tempo delle spese e papà voleva comprare qualcosa di bello per il compleanno della mamma, e anche per il mio. Sono sempre stata orgogliosa di essere nata lo stesso giorno della mamma. Mi hai invidiato un pochino, per questo, vero? Tu che sei nato a maggio eri così lontano, da noi. Però hai fatto felice la nonna: maschio, evviva! e poi proprio nel mese delle rose, il suo mese. Due mondi, noi. Anche adesso. Tu vuoi buttare, io voglio tenere.
Ma quel giovedì, tu non lo puoi sapere che giorno di emozioni, fu.
Mi mettevo in mezzo a loro e ricevevo carezze, di continuo. Una bambola, e mamma che gioiva per dei pizzi, non so, non ricordo bene.
Era giorno di sorrisi, saltelli e regali. Aveva appena smesso di piovere, si respirava aria buona.
È bello raccontarlo a te.
Papà volle offrirci una cioccolata in Galleria. Loro due parlottavano e si lanciavano occhiate sopra i guanti bianchi del cameriere. Papà disse quelle parole che allora vedevo come un regalo:” Io e la mamma ti daremo un fratellino o una sorellina, sei contenta?”
Filippo, il 27 ottobre 1964 avevo una certezza: avrei avuto vicino a me un fratellino o una sorellina e non sarei più stata sola.
Quindi no, non ti azzardare, quella foto non si tocca, siamo noi prima di te, della rabbia, della gelosia, delle incomprensioni.
Prima delle forbici.
Io non volevo farti male, lo giuro. Ho solo preso il sacchetto di mamma, quello dei fili. Non avevo visto le forbici e tu piangevi, piangevi così forte che non riuscivo neppure a giocare. Sì, ti ho tirato addosso il sacchetto e sei stato sfortunato, la punta delle forbici ti ha tagliato la gola. Ma ti hanno salvato, no? Anche se non parli più sei ancora vivo. No, non ti ho mai detto che mi dispiaceva, non volevo farti stare zitto per sempre, è stata una fatalità, lo sai.
Ora dammela, quella foto. È mia.
©Antonella Zanca, 2019