Intervista a Dorinda Di Prossimo [parte prima]

 
M’accade di fare a pezzi un verso
Un suono come di sangue che se ne va
Uno spettinio di vocali
Uno spalancar di dolore
E mi visito nella sacrestia delle minuscole rese
Le partenze
Le rimanenze
Le parolette incomprese
Dorinda Dora Di Prossimo, 2016

  • Ho conosciuto Dorinda Di Prossimo ai tempi dei Blog – Internet d’altri tempi – attraverso le sue parole. Un incontro fulminante, una passione vera. La sua poesia, il modo personalissimo di scegliere e usare le parole “mettendo insieme montagne e formiche senza vergogna” come lei stessa afferma, contengono al contempo echi di poesia classica e formale, uniti a un linguaggio più che moderno che fanno del suo scrivere una voce unica e potente, perché sempre immediatamente riconoscibile. Dora – a me piace chiamarla così – ha il sigillo dei grandi: la capacità di trasmettere il suo punto di vista facendo coincidere forma e sostanza, anche quando tocca l’inesprimibile. Quando ho incontrato Dora, un paio di mesi fa, dopo anni di conoscenza solo letteraria e virtuale, è stato come tornare in una casa conosciuta, fatta anche di braccia, occhi, voce, energia del suo indiscutibile fascino. Dorinda Di Prossimo dovrebbe essere annoverata fra i grandi della poesia italiana contemporanea, anche se dice di non averne l’ambizione, il carattere, la voglia e preferisce una vita ritirata, lontano dalla follia delle folle. Ma questa è una delle poche cose che non le lascio dire.

    ©Immagine Lee Jeffries

    Restiamoci umani. Arrestiamoci.
    Precisi in tenerezza.
    Dalla carità non svaniamo.
    Scaviamo l’abbraccio per tetto di preghiera,
    come l’arrotino, che l’innocenza affila
    e, per le case bussa e, né bei panieri, l’offre.
    Siamo la fortuna del vicino, la sua zuppa,
    il palmo d’ogni pioggia.
    Umani restiamoci. Tremiamoci. Trapassiamoci.

    Dorinda Dora Di Prossimo. 2016
  • Perché hai scelto la poesia come tuo linguaggio privilegiato?

    Fin da piccola non parlavo che a piccole dosi. Osservavo, principalmente. Incameravo odori, luci, colori, e credevo fosse normale per tutti custodire dentro di sé l’inesprimibile. A sera, poi, il tutto si palesava in una confusione tra me e me, a letto, nei silenzi, persino come fuga dalle preghiere a cui, da piccoli, eravamo obbligati, io e i miei fratelli. E, così, via via, per anni ed anni, nella concretezza del quotidiano, spesso feroce, e nella fuga, poi, nello sciorinare metafore viscerali sulle tempeste, sulle spine, sulle trionfali bellezze della natura. Di giorno leggevo la potenza dei romanzi, masticavo un linguaggio concreto. In separate stanze, sussurravo qualcosa di incomprensibile, come faceva mia madre, come facevano le mie zie con il loro mistero di immagini colorite di meridionali sfumature, quasi da streghe.

    A scuola mi fu sbattuto in faccia il linguaggio poetico, mentre crescevo e maturavo forti confusioni esistenziali. Lo trovavo “trascinante” ma pesante. Un viaggio forzato verso la scoperta del sentire. Attingevo alla poesia solo a brevi tratti, per rubare qualche chiarimento amoroso, qualche bagliore romantico. Studiarla era un obbligo, sorriderne era un mio segno di libertà.

  • Quando hai scelto la poesia come linguaggio privilegiato e quando hai capito che corrispondeva al tuo modo di essere?

    Quando ho scelto la poesia come linguaggio privilegiato? Ho due netti “quando”. Il primo è inconfessabile, e, magari un giorno, dopo aver abbondantemente bevuto, te ne parlerò, autorizzandoti alla diffusione solo post meam mertem, magari come prefazione a qualche uscita straordinaria dei miei versi e versacci. Il secondo “quando” è legato alla mia psicoterapia durata quasi otto anni. Nella stanza col mio psyco doc vivevo la possibilità di parlare, determinarmi, raccontarmi come meglio mi sentivo, usando in quasi totalità comunicativa metafore, assonanze, da cui scaturiva anche una delicata musicalità. Lui, lo psyco doc, mi capiva. MI CAPIVA, nonostante i dolori che gli vomitavo addosso. A fine terapia, mi disse: perché non scrive parlando come fa qui? Lei è pronta per fare musica di parole. Si fidi di sé. Ecco. Così, cominciai a essere, finalmente, totalmente pazza, con tanto di autorizzazione dell’esperto. Col tempo, nel tempo, ho affinato il mio diresentireliberarecontemplaresussurrareurlareriderepiangere.

    P. S. Ho provato anche delle brevi prose, ma, erano, in realtà “prosie”, e che ci vogliamo fare?

    ©Immagine Toni Demuro

     
     
     
     

     

     

     

     
    Voglio l’ora silenziosa
    la confusione delle persiane
    l’erba che succhia il sasso
    la tacita, piegata buona notte

    Dorinda Dora Di Prossimo,  Quaderno millimetrato, Incerti Editori, 2012

  • Quali sono i limiti del linguaggio e poetico (e se ne ha davvero, cosa non si può dire in poesia?)

    Il linguaggio poetico è, a mio avviso, la pura espressione della libertà, poiché è frutto di ascolto e dissotterramento degli angoli nascosti, timidi, compulsivi, che hanno bisogno di prendere luce. È un flusso, è un cammino, che, man mano, prende un’andatura armoniosa, compatta. Richiede un affinamento di batter/levare di toni, di uno stile che pur rimanendo uguale a sé stesso, si evolve, si spreme, delinea la personalità del verso. Non ci sono limiti, Anna mia cara, purché il lettore avverta una coerenza perenne del poeta. La sua fedeltà intellettuale.

  • È possibile un linguaggio poetico moderno (metto insieme merda e budino: come consideri i vari linguaggi poetici di oggi, come lo slam poetry, la poesia murale, la poesia su internet?) Ogni epoca può creare un linguaggio poetico fuori dai canoni?

    Ogni epoca fonde modernità, rinnovamento, sfide linguistiche, approcci sani e malsani, poiché sociologicamente c’è un impulso generazionale a sfidare canoni e conformismi. C’è sempre un nuovo sentire e di conseguenza un nuovo linguaggio. Qual è il limite che rende accettabile ogni nuova formula? La sensibilità culturale, la “fede” al proprio tempo del “lettore”. La credibilità del verso nuovo che ha contenuti antichi, ma che rompe gli schemi. Se diventa credibile, pregnante, coerente nel suo stile, resterà tra le colonne poetiche, sennò, sarà solo il frutto d’un linciaggio apparentemente innovativo. “merda e budino” mi convinceranno solo se, nel loro interno sento la credibilità di un tormento esplosivo e non una scorreggia sparata per essere attuali e figli della nuova generazione.

  • Come definiresti il tuo linguaggio poetico? Quali sono i tuoi riferimenti (ma non solo narrativi, di cosa altro si nutre la tua poesia, colori, persone, emozioni, ricordi, ma anche profumi e sensi…)?

    Una luce che ondeggia tra varie voci del dolore, delle paure, della gioia. Come un tentativo di sfidare l’opaco foglio del “sentire” per setacciarne, millimetro dopo millimetro, alfabeti di speranze, siparietti di preghiere, voragini di solitudini, amori, passioni. Mettere insieme montagne e formiche senza vergogna.

    In una nota critica/davvero bellissima e di cui ancora arrossisco/, nelle pagine della rivista Forme libere così hanno scritto del mio Quaderno Millimetrato

    Il libro di Dorinda di Prossimo è un piccolo poema “proustiano” nato, come ci indica l’autrice, “per suggerita innocenza”. Leggendo si attraversa un giardino tessuto di ouvertures mozartiane, giochi infantili, altalene d’antan, nell’atmosfera di un’infanzia inattuale, vissuta nel “tempo delle tartarughe”. Ne viene fuori un libro denso ma leggerissimo, colorato da una malìa regressiva, da una piccola trance fatta di malizie carrolliane e di giochi streganti come in un “Oltre lo specchio” fatto di passeggiate, madri, canarini, centrini, caraffe, graziose irruzioni dello stupore e del dolore…

    I temi sono l’inadeguatezza, i commiati, le partenze. Affiora una sensibilità nervosa e stregata, di bimba senza peso e senza terra, bimba che non vuole neppure il gioco del due, che resta nell’uno del suo gioco. “Due sarebbe commedia dell’arte”, cioè vita, impulso, ferita, adeguatezza. Per prudenza il poeta annota la sua riflessione sul dorso del polso sinistro, come un dolce tatuaggio.

 
©Anna Martinenghi, 2019
(continua)
 

Biografia

Dorinda Di Prossimo è nata a Teramo nel 1950. Vive a Porto Recanati. Nel 1974 consegue a Urbino la Laurea in lingue e letterature straniere. Docente di lingua francese nella scuola media inferiore fino al 2007. Dal 1996 fa esperienze teatrali, portando in scena opere scaturite da lavori di scrittura collettiva. Primario e fondamentale l’incontro con Maurizio Boldrini, regista e direttore del Minimo Teatro (Sforzacosta). Negli anni seguono altre esperienze teatrali:
Marco Di Stefano (Teatro della Comunità), Brigitte Cristensen (Teatro della Comunità), Antonio Fabbri (Eliseo, Roma), con rappresentazioni al teatro Cortesi di Sirolo, Daniele Marcori (Lega Improvvisazione Teatrale, Firenze), Gianluca Barbadori (Un ponte due culture).

Ha partecipato a diversi concorsi di poesia: Festival della poesia di Castelfidardo; Premio Giacomo leopardi; Concorso Nazionale I veli della Luna (seconda classificata); Percorsi labirintici promossi dall’Associazione Soqquadro, Roma, poesie per le detenute di Rebibbia (prima classificata).

Pubblicazioni:
Nel sottocuore, Casa Editrice Akkuaria, 2006
Leggere sull’unghia,  Edizioni Tempo al Libro, 2011
Quaderno millimetrato, Edizioni Incerti Editori, 2012
La notte la casa l’assenza, Edizioni Forme Libere, 2015

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