3 APRILE 2015
Non ero mai stata sulla scena di un delitto.
Tanta cronaca nera nel mio passato di giornalista pubblicista, tanti morti, nessun omicidio nel fazzoletto di terra di cui mi occupavo.
“Scena del delitto” fa tanto fiction televisiva ma non ti viene in mente altro quando entri in una casa oltrepassando i nastri bianchi e rossi disposti dalla Procura; quando ti muovi in stanze dove ogni oggetto riporta un’etichetta dei RIS e un codice; dove i muri parlano e le parole sono gli schizzi di sangue che ancora imbrattano tutto quel bianco. Sono arrivati molto in alto: doveva esserci una carica di violenza inaudita in quei sette colpi che le hanno fracassato la testa e la vita, che le hanno cacciato i denti fin dentro lo stomaco.
Quanto tempo ci vuole ad alzare per sette volte il braccio e per poi abbassarlo con odio contro un bersaglio di carne, ossa, sangue, muscoli e nervi?
Quanta forza occorre? Quanta ferocia per non fermarsi di fronte alle grida di terrore (perché ne sono certa, lei deve aver gridato), ai brandelli di vita, al sangue che oltre ai muri deve aver lordato anche il carnefice?
DENTRO UNA BOLLA
Cammino senza costrutto, sfioro oggetti, sposto libri: mi sembra di essere in una bolla, come se fra queste mura il tempo fosse rimasto sospeso.
Dietro il ciclone della ricerca degli investigatori intuisco le tracce di una quotidianità interrotta: la scatola del thè mezza vuota, una scarpa che spunta da sotto il divano, un segnalibro fra le pagine di un libro ancora da finire.
Il senso di nausea mi opprime e mi siedo, ma non posso vomitare, i RIS si sono portati via anche gli scarichi dei lavandini, in cerca di prove.
Per qualche istante, desidero con ferocia la morte per l’uomo che ha compiuto questo scempio.
Una morte di stato asettica e legale, lo scambio di una vita per un’altra vita.
Qualche istante, poi mi passa.
Restiamo umani.
Io voglio restare umana, non voglio diventare come lui.
Quasi due anni di polvere lasciano sbaffi grigiastri sui miei abiti scuri.
Mi guardo le mani e mi accorgo che ho la punta delle dita annerite.
LA SENTENZA
A inizio 2017 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 30 anni di reclusione inflitta dal Gup a Giulio Caria, a processo per l’omicidio della sua convivente.
La Cassazione ha annullato l’aggravante dell’aver agito con crudeltà.
Il corpo della donna era stato trovato nell’appartamento dove la coppia viveva a Bologna, chiuso in un congelatore, il 25 giugno 2013. La donna era stata uccisa tra l’8 e il 9, con piú colpi di un oggetto contundente che non è mai stato trovato. Caria era stato fermato in Sardegna, dove cercava di nascondersi, due giorni dopo il ritrovamento del corpo.
La donna si chiamava Silvia Caramazza. Aveva 39 anni. Era bella, intelligente, colta e di lui diceva “è l’uomo sbagliato al momento giusto”.
Silvia Caramazza era amica mia.
©Viviana Gabrini, 2019