Storie in minigonna (racconti brevi che lasciano le gambe scoperte) [8] di Anna Martinenghi

 Polsi sottili

La ragazza srotolò la canna con difficoltà, i polsi le dolevano, quello sinistro sanguinava. La mano sul rubinetto rianimò il serpente verde; l’erezione del tubo di gomma la infastidì. L’acqua uscì a fiotti, bollente, lucidando le piastrelle del bordo piscina. La ragazza sciacquò il sangue, poi buttò la testa sotto il getto, inzuppando i capelli, finché l’acqua non prese a scorrere fredda. Le sembrò che il respiro fosse tornato normale, anche se i brividi continuavano, nonostante il caldo di luglio. L’acqua sulle piastrelle restituiva i raggi del sole, moltiplicandoli in minuscoli arcobaleni. Pensò per un attimo alle mattonelle candide della macelleria di Piero, poi si accasciò a terra, esausta. Strinse le braccia attorno alle ginocchia, abbandonò il serpente. Le lacrime nei suoi occhi avevano lo stesso colore dell’acqua della piscina; una sfumatura pulita fra l’azzurro e il verde, ma la ragazza si sentiva sporca.

Il polso non smetteva di sanguinare. Si era tagliata cercando di liberarsi. Chi avrebbe mai pensato che anche i polsi dimagriscono? I suoi erano sempre stati sottili, eppure si erano rimpiccioliti ancor di più. Soffocò l’urto del vomito. Quanti giorni erano passati? Cinque, sette, dieci? Ogni minuto le era sembrato eternità in quella stanza buia: ammanettata al letto, nuda. Cercò di non pensarci, ma il corpo restituiva intatta ogni sensazione: il terrore, la sete, la vergogna, le labbra rotte, le lacrime asciutte, la pipì sul materasso, le piaghe sulla schiena, il disgusto e il fiato di quell’uomo addosso. Assurdo, vero? Di tutto ciò che lui le aveva fatto, ricordava solo il respiro pesante, l’alito amaro.

Si sciacquò di nuovo il viso. Non era poi tanto diversa da lui. Dopo giorni di digiuno si era accorta che la mano sinistra scivolava un po’ nella circonferenza della manetta. Si era scarnificata il polso fino all’osso, facendolo scorrere avanti e indietro, avanti e indietro mille volte in quella trappola di metallo. Il dolore l’aveva soffocato, come l’aveva soffocato negli avanti e indietro di quell’essere che l’aveva violata. Il sangue aveva fatto da lubrificante, la mano era sgusciata fuori, come un pesce dalla maglia allentata di una rete. Arrivare alle chiavi era stata un’impresa titanica, ma tutte le forze erano tornate di colpo: lo chiamano istinto di sopravvivenza. Si era tesa come un arco per raggiungere i pantaloni abbandonati sulla sedia vicino. Le sue ossa avevano urlato e così i muscoli, i tendini e tutto ciò che s’era rattrappito dentro di lei durante la prigionia. Teneva le chiavi in tasca il bastardo, nell’anello del portachiavi, con tutte le altre: casa, cantina, bicicletta, donna da stuprare. Si era liberata. Le ferite erano profonde.

Il resto non lo sapeva spiegare. Poteva scappare, anche se era nuda, ma non l’aveva fatto. Quell’uomo elegante, dalla casa lussuosa e la macchina sportiva le aveva tolto l’anima. Istinto di vendetta lo chiamano. Lui era lì, in piscina, addormentato sotto il sole, come niente fosse.

Era andata in cucina. Lei che non aveva mai fatto male a una mosca, aveva scelto con precisione ciò che serviva. Non aveva pensato ad altro in quel lunghissimo tempo. “Sarò la tua Geisha”, disse ad alta voce, mentre gli ammanettava il polso all’ombrellone, “serva del sesso e della casa, come volevi tu”.

Il porco si era svegliato, sì, per un attimo si era svegliato da quel sonno degli innocenti, ma lei gli aveva tirato una padella in testa, con tutte la forza che aveva. Poi, come aveva letto in un romanzo di non ricordava chi, gli aveva stretto un sacchetto intorno al collo, stringendolo forte con le stringhe delle Superga. Non se n’era andata. Aveva ripensato al primo istante; le mani sulla pelle, il fiato amaro, la lama di dolore nel basso ventre e aveva affondato il coltello da cucina più grande che aveva trovato nel basso ventre di lui. L’aveva guardato morire, contorcersi come una biscia, come il serpente verde dell’acqua. Era morto con un’erezione eterna fra le gambe e una striscia rossa che colava ovunque.

Il respiro si era calmato, i brividi no. La ragazza srotolò la canna dell’acqua fino in fondo; la macelleria di Piero era sempre così linda. L’acqua della piscina perse la sfumatura pulita fra l’azzurro e il verde. Si lavò le mani. Doveva chiamare il 118. Il polso sanguinava ancora.

© Anna Martinenghi

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