Storie in minigonna (racconti brevi che lasciano le gambe scoperte) [10] di Anna Martinenghi

©Gaia De Luca
©Gaia De Luca

Il lupo non conta le pecore

Correre mi sistema i pensieri. All’inizio è dura: l’asfalto è pesante, il mio corpo è pesante, duro, ingolfato dai pensieri che mi porto dentro. Inizio piano, so bene come si fa: cerco di rilassare i muscoli, di lasciar andare le tensioni, ma è come farsi strada in un gregge di pecore, come averle tutte intorno. Non devo pensare. Ascolto il cuore, il respiro, i passi. Sono storta. Le pecore sono ovunque. Devo concentrarmi di più. Il respiro è appena alterato, solo un soffio. Penso al percorso dell’aria, a quel gesto involontario che ci fa vivere, penso ai miei polmoni come a due palloncini della fiera. Le pecore diminuiscono.

Ora mi concentro sulle gambe, lascio che il pensiero mi scivoli addosso come una goccia di mercurio. Corre, io corro. Mi fa male nei soliti posti: cerco di raddrizzare la postura, ma dura poco, appena cala l’attenzione tornano tutti i difetti. Mi rilasso. Avrò fatto un chilometro. Fiato ce n’è. Aumento un poco il passo, appoggio bene le piante dei piedi, spingo. Sento il polpaccio appallottolarsi e poi distendersi, i capelli nella coda ondeggiare, come quelli di un cavallo. Rimangono pochissime pecore.

Non sarò mai una runner di quelle vere, col cardiofrequenzimetro e tutto il resto. Io corro solo per non pensare, o per pensare a una sola cosa. Quando corro mi coincido. Le mie coordinate si incrociano: latitudine, longitudine. Sono una “X”, un puntino che si muove sullo schermo. Un chilometro e poco più: quadricipite duole appena, ginocchia scricchiolano, respiro buono. Sono una vecchia gallina, ma ho sempre fatto tanto sport, il corpo regge, nonostante tutto. Vorrei correre a perdifiato, ma io non sono una sprinter, io sono una da maratona. Sarei. Ero.

Aumento un po’: voglio arrivare fino G. e ritorno. Cinque chilometri, non di più. Potrei riprendere ad allenarmi. Forse. Tendo a respirare con la parte alta dei polmoni, non va bene. Schiaccio il respiro contro il diaframma, lui si ribella, mi restituisce un fischio ansioso, ma io insisto. Ancora non sudo. Ci vuole sempre un po’ prima di iniziare a sudare. Le gambe non vanno male, ma la schiena è una tavola, le spalle sono rigide, mi muovo come Pinocchio. Cerco di far scivolare il pensiero fra le scapole, ordino loro di diventare ali, di spingermi fino al sole. Non ascoltano. Devo liberarle da altri pesi. Lascio andare le braccia, mi scompenso, la schiena migliora. L’asfalto non è più così pesante, le ultime pecore si sono spostate di lato.

Questo è il punto di non ritorno, quello che si raggiunge con fatica quando si inizia a correre, spolmonandosi e riempiendosi di acido lattico. Ci vuol tempo, costanza, fatica. Passato quello, inizia il piacere vero della corsa. La fatica rimane, quella non scompare mai, ma si ha la sensazione che si potrebbe continuare per sempre, con quel ritmo, con quell’andatura. Questa sono io: stortignaccola, troppo cerebrale anche nelle cose fisiche. Vuoi la guerra? Ok.

Aumento ancora. So bene che questa non è più la mia comfort-zone. Questo non è il mio ritmo, non è il mio respiro. E’ la velocità di una donna molto più giovane, allenata, serena. Io così non reggo tanto, ma posso resistere. Il respiro è un casino ora: i polmoni sono appiccicati alla cassa toracica, ho la sensazione che il cuore li stia spostando, che sia cresciuto dentro di me, un tamburo enorme che suona l’allarme. Ho il cuore in gola, pancia, schiena, sfinteri. Chiede di smettere. Non smetto. Sudo. Puzzo. Faccia paonazza. Le gambe cigolano là dove mi sono fatta male. Fanculo. La ucciderei la pecora. Non so come, ma le vorrei far male, vorrei farla scappare. Vorrei essere io il lupo. Per una volta. Ho i pugni chiusi. Caccio giù il fiato. Rallento un po’. Sono quasi a metà. Non sto pensando più a niente.

©Anna Martinenghi

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