Shangri-La di Nicoletta Vallorani

C’è sempre una volta di troppo.
Mia madre, prima di andarsene a morire da sola, continuava a parlarmi di Trieste. Non ci sono mai stato, e non mi ricordo di averlo mai desiderato. Non particolarmente.
Ma mi piaceva ascoltarla. Mi pareva quasi di sentirlo l’odore di questo mare così lontano da una Milano semidistrutta e malata. Chiudevo gli occhi e mi pareva di essere accarezzato dal vento. Non mi è mai piaciuto essere toccato. Da nessuno. E tuttavia, l’idea di essere accarezzato dal vento mi piaceva. Già da piccolo.

Da che mi ricordo, non ho mai avuto problemi coi cadaveri.
Ne ho visti tanti. Col mestiere che faccio (che facevo, dovrei dire?), uno si deve abituare a certi spettacoli. E sono spettacoli, sul serio.
Oggi, a cinquant’anni dalle Torri Abbattute, con questa guerra invisibile che non finisce, anche i killer non si accontentano più di uccidere: costruiscono una storia, uno show, un quadro indimenticabile. Perciò, a forza di aiutare quelli dei Servizi a cercare assassini, ho tappezzato la mia personale mappa di Milano di immagini indimenticabili, morti che si sono meritate foto da prima pagina, sempre.

Mi frugo nelle tasche e tiro fuori un cartoccio. Non ho la più pallida idea di chi possa averlo lasciato nella mia stanza. L’ho trovato ieri, sotto il materasso. Non ho amici nella comune dove vivo. Non ho affetti di nessun genere. Nessuno viene a cercarmi, a parte i miei datori di lavoro. E tuttavia, tuttavia…questo cartoccio è comparso sotto il materasso e mi è sembrato un segno.
Lo dipano lentamente, con attenzione, sulle mie ginocchia, e intanto osservo il gioco delle mie dita sottili. Mi piace guardarle. Sono mani da pianista che non hanno mai toccato un piano. Mani che hanno fabbricato bombe, maneggiato lame, accarezzato la carta dei libri, conosciuto donne di cui non ricordo il nome ma ricordo bene l’odore, la musica della voce, il colore del silenzio.
Mani che adesso lisciano con cura questa foto sbiadita. Una cartolina di tanti anni fa. La scritta dietro dice: Castello di Miramare. Austero e intero sul confine tra terra e mare. Diritto come una persona con un orgoglio. Una sagoma precisa. Chissà cosa ne è rimasto ora.
Voglio andarci. Anni fa ho letto su un giornale che un tizio molto ricco voleva ricostruirlo com’era stato un tempo, prima degli attentati a tappeto. Non so com’è finita poi. E non è che i giornalisti dicano sempre la verità.

Nessuno più legge i giornali.
Mi guardo intorno, sul tram che mi porta fuori dal reticolo di vicoli e baracche alla periferia di Milano, e nessuno, proprio nessuno, legge un giornale. Un ragazzino gioca con un video portatile di trent’anni fa, un arabo ben vestito tiene in testa un casco con visore incorporato e saltella al ritmo di una musica che nessuno può sentire.

Fuori, un taxi ci supera rombando e suonando furiosamente il clacson. Sulla fiancata, ha una riproduzione stilizzata della Morte di Marat. È abbastanza bella. Ci sono autentici artisti, in giro. E nessuno va più neanche in bicicletta senza farsela decorare con un graffito d’arte.
Sento il tram traballare e vedo l’autista scuotere la testa. È un tipo anziano, e deve averne viste di ogni tipo. Mi ricorda il mio amico Picasso, anche se so benissimo che lui se n’è andato qualche anno fa. E tuttavia mi piace pensare che possa essere lui, finché non gli spio gli occhi nello specchietto retrovisore. Questo mi riporta bruscamente alla realtà. Sono onici levigati, bordati d’oro. Innesti.
Picasso non si sarebbe fatto innestare niente di finto neanche per scommessa. Che peccato. La magia è sfumata. Il fantasma di Picasso mi fa “ciao ciao” con la manina mentre svanisce partendo dai bordi. Come il gatto del Cheshire.
Due ragazze con la testa rasata e un codice meccanografico tatuato sulla nuca si parlano movendo dolcemente le labbra. Strano. Non sento nessun suono. La ragazza che sembra più giovane solleva una mano in aria e comincia a muoverla. Le dita sono sottili. Mi colpiscono dritto al cuore.

Il linguaggio dei segni.
Mille anni fa mi sono innamorato di una donna che conosceva il linguaggio dei segni. Mille anni fa ho cercato di dimenticarla. Mille anni fa ho deciso di non andarmene con lei. Le ho salvato la vita, ma sono rimasto in questa fogna. Mi sono dimenticato di vivere.
Sono rimasto è ho continuato a fare il lavoro che facevo, cioè leggere cadaveri per conto di una banda di stupidi impiegati dello stato che detesto e che non sono capaci di individuare un indizio neanche se glielo spiegano,

Sono rimasto.

R  i  m  a  s  t o.
Rimasto.

Fino a oggi.
Mi sento come uno che si fosse (meglio “si è”) tuffato in acque troppo profonde dopo essere rimasto a osservarle per anni. La verità è che non ho la minima idea di cosa si provi a tuffarsi. È una sensazione che sognavo, da piccolo.
C’è stata una volta in cui davvero ho pensato di essere vicino a viverla.
Stavamo andando in vacanza. Erano tempi difficili, ma non come oggi. Non ancora. Perciò avevamo pensato che potevamo permetterci un viaggio al mare. In Croazia. Mia madre amava quei posti. E diceva: «Passeremo da Trieste. Vi farò vedere la città».

Prima che tutto succedesse nella mia vita, mi piacevano i libri di geografia. Adoravo guardare le mappe, ricostruire i paesaggi, spiare i confini. Così, mi misi a cercare la Croazia su una Guida del Touring. Provai a seguire col dito la strada che avremmo dovuto seguire per arrivarci. E il mio dito si fermò a Trieste.

Shangri-la.
Non era destino che ci andassi neanche allora.
Mio padre morì una settimana prima che partissimo. Senza che lui e mia madre avessero avuto il tempo di riconciliarsi.
«Ehi, spostati!»
Il tizio in divisa mi batte sulla coscia un manganello. Non ha esitazioni, il ragazzo. Metti una divisa a un sempliciotto e ne farai un prevaricatore. Normalmente, me ne fregherei. Non è che possano farti molto se stai seduto su un tram e hai in tasca un biglietto. Ma adesso sobbalzo, e il tizio mi guarda insospettito. Ha una faccia rosa un po’ porcina, vecchi pantaloni con una banda laterale rossa e un cappello da carabiniere che ha conosciuto tempi migliori.
La faccia porcina sghignazza. «Ti ho fregato, eh?»
L’autista sbircia nello specchietto retrovisore interno per godersi la scena, e il ragazzo porcino si toglie il cappello e se lo batte su una coscia, ridendo come un matto. Perché è questo che è: un matto che si è comprato una divisa fuori ordinanza a Papiniano e se ne va in giro a fare scherzi sugli autobus.
«Fottiti» borbotto. Spingo le mani più a fondo nelle tasche e cerco di nascondere la testa tra le spalle. La tesa del cappello mi copre il viso, la metà sana e la metà malata. Del resto, non mi pare che nessuno sia interessato a me. E sono quasi fuori da questa città. Forse sono paranoico. Nessuno mi sta seguendo.

Dunque. La questione è questa. È successo che ho risolto un altro caso, trovato un altro serial killer, provato pietà, comprensione, ammirazione… non so. Insomma, ho lasciato scappare l’artista assassino di turno. Non è stata la prima volta, lo ammetto. Ma è di certo stata l’occasione in cui mi sono preoccupato di meno di nasconderlo. Quelli dei Servizi sono stupidi. Collaborare con loro è stato uno sbaglio che ho continuato a fare per anni, ma ho sempre creduto di poterli tenere sotto controllo e di potermene andare quando volevo.
Ma con gli stupidi, è chiaro, non è possibile ragionare. Si possono sopportare e basta. Anche in questo caso, arriva sempre il momento che la botte è piena e una sola goccia di più la fa traboccare. Insomma, i coglioni si sono accorti dell’imbroglio e hanno tirato fuori i denti.
Non so cosa possano farmi. La cosa certa è che in tanti anni che lavoro da loro, ho imparato a conoscerli. E poi sono vecchio. Non so quanto tengano ai loro segreti, ma non ho voglia di combattere.
Voglio andarmene in un posto dove le mie ferite possano essere accarezzate dal vento. Dal momento che nessuna donna vuole accarezzarle. Mi viene da ridere. Di donne ne ho avute parecchie, anche se solo una ha tentato davvero di fare di me una persona diversa. Senza riuscirci, comunque.

Ho deciso di andarmene senza un attimo di esitazione. Ho preso solo uno dei miei sette vestiti neri. Mi sono messo il cappello. Sono uscito da S. Vittore senza salutare nessuno. Certe volte penso che l’ombra dei carcerati che una volta ci stavano abbia lasciato su tutti noi che siamo venuti a viverci una sfumatura di tristezza, la sensazione di non poter essere in nessuno modo liberi. Mai.
Forse è così.
Sono salito su questo tram. Arriverò fino alla tangenziale. Non ci passa troppa gente, non più, ma cercare un passaggio non dovrebbe essere pericoloso. Oppure camminerò. Camminare non mi spaventa.
Ci sono tutti questi nomi, nella mia testa.
Colle S. Giusto. Campanile di Servola. Risiera di S. Sabba.
Nomi senza una faccia, senza fisionomia. A essere onesti, non so neanche se questi posti esistano ancora. Mi piacerebbe poter salire sul faro della Vittoria. Poter vedere il mare da lì. Il vento parla là in cima, ne sono sicuro. E chissà che anche questo sia un linguaggio che io riesco a capire.

Dopotutto, è questo che ho sempre fatto di mestiere: leggere segni. E mi è sempre piaciuto. Sono bravo in questo. So leggere i segni. Conosco la lingua dei vivi ma ancora di più so leggere gli ultimi attimi dei morti.

Uno per uno, sono scesi tutti. Il finto carabiniere se n’è andato per primo, sempre ridacchiando, ancora soddisfatto del suo scherzo. Mentre passava, ho spiato il profilo porcino e la pelle rossa e butterata intorno al bordo del colletto. Anche lui se ne sta andando. Stiamo morendo tutti. Piano o più in fretta.
Le ragazze tatuate sono scivolate via in silenzio, ormai quasi fuori città. Deve esserci un centro sociale qui vicino. Ormai quei pochi rimasti sono irraggiungibili. L’arabo, invece, era sceso prima, quasi rotolando giù dalle scale per via del visore che teneva calato sugli occhi. Del resto, chi può biasimarlo se non vuole guardarsi intorno? Non c’è niente da vedere in questo posto.

Siamo rimasti io e il quasi-Picasso. E il capolinea è vicino.
Una manina piccola piccola mi fa solletico nel cervello. Succedeva sempre quando guardavo un cadavere e cercavo di leggerne i segni.
Ma quel periodo è finito. Cancello la mano e la sensazione che essa produce.

La Fessura del vento ha dentro un fiume.
Questa è una cosa che mi ricordo da piccolo. L’avevo studiata, questa faccenda. Sul libro che avevo usato c’erano anche le foto, pure se non capivo proprio come avessero fatto a farle.
Roccia scoscesa e fiume. Pietra e acqua. Chi poteva arrampicarsi lì dentro? Chi poteva pensare a fare delle foto?

Ad ogni modo, il posto doveva essere bellissimo. Chiudo gli occhi, mentre aspetto che la porta del tram si apra, e mi pare di sentire l’odore umido e muschioso, e il rumore dell’acqua.
Che poi, fuori piove. Come sempre. Farò fatica a trovare un passaggio.

Volto le spalle all’autista. Sento i suoi occhi piantati nella nuca, mentre il tram si ferma, ma non mi giro. Non ho voglia di parlare. Aspetto che la porta si apra. Poi a un tratto quel solletico nella testa. Quella specie di telepatia, un attimo prima di sentire contro la nuca la canna fredda di una pistola.
«Dove vai, Negro?»
«Nigredo. È così che mi chiamo.» In tanti anni, non sono stati neanche capaci di imparare il mio nome.
«OK. Comunque sia, tu da qui non scappi.» Sento la voce chioccia e soddisfatta. Penso agli innesti: gli onici sono costosi, avrei dovuto pensarci che un autista non poteva permetterseli.
OK. Errore.
«Errore, Negro» ripete lui. Non è telepatia, questa. È così chiaro che ho sbagliato che anche lo scemo lo capirebbe.
Quello che non capisce è che non posso essere fermato.
No.
Non tornerò indietro.

I gatti cercano un posto per morire. Io l’ho trovato. Sto andando alla mia personale Shangri-la. Non posso essere fermato.
Lo scemo non lo sa, così rimane con in faccia quella strana espressione stupita, e il mio coltello nella pancia. Lo so quali sono i suoi ultimi pensieri: non è possibile, è un vecchio, non può avermi fregato.
Sono un vecchio. Esatto. Voglio essere lasciato in pace.
Pulisco il coltello e scendo. Poi annuso l’aria. Sembra già diversa.
Con calma, con molta calma, comincio a camminare.
Trieste deve essere di qua.

@Nicoletta Vallorani, 2020
 
È in uscita oggi il suo nuovo romanzo Avrai i miei occchi, Zona 42 editore 
 

 

Foto nel cubo
Mario De Carolis
Ophelia
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1 commento

  1. L’Ophelia di Mario ha attirato la mia attenzione <3 e ho letto il racconto. Complimenti a Nicoletta Vallorani, anche il suo stile narrativo cattura l'attenzione e la curiosità. Bel binomio! <3
    In bocca al lupo per il nuovo romanzo!

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