Rosa

Rosa solleva lo sguardo e lo posa avvilita su pacchi e scatoloni. Da qualche parte ha letto che lo stress da trasloco è tra i più alti, pari forse a quello da lutto. La sua casa le sembra un campo di battaglia, la sua vita un corpo sezionato col bisturi e confezionato in comparti stagni.
Qui i libri, qui i documenti, qui i vestiti, qui il pentolame.
E i ricordi? Dove le avranno infilato i ricordi?
Prima gli oggetti, poi i mobili, poi in quell’appartamento rimarranno solo polvere e ragnatele.
Le ragnatele. Ecco, pensa Rosa, forse i ricordi rimangono impigliati nelle ragnatele.
Che pensieri strani che faccio, si dice Rosa.
Ricorda un altro trasloco, quello che l’ha portata qui. Allora però non possedeva così tanti oggetti e comunque prima erano arrivati i mobili, poi lei e le sue scatole.
Da uno scatolone ancora aperto, Rosa tira fuori un libro, piccolo e gualcito: odora di muffa e di vecchio e le pagine sembrano volersi sbriciolare fra le sue dita.
Carte in tavola, recita la copertina. Agatha Christie.
Rosa non ricorda di averlo letto o meno, ma lo porta al viso ed aspira: l’odore di stantìo le suscita altri ricordi e si rivede bambina, nella casa dei nonni, dove tutti i libri, ordinati in alti scaffali di noce, avevano lo stesso odore, le stesse pagine ingiallite, la stessa consistenza precaria.
A lei piaceva annusare i libri, così come le piaceva annusare la trapunta imbottita che la nonna tirava fuori dal baule all’inizio dell’inverno. Anche la trapunta, come i libri, sapeva di muffa, ma anche di talco e di essenza di rose, con cui la nonna si profumava prima di coricarsi.
Il prete nel letto, il mattone sulla stufa che poi veniva avvolto nella carta di giornale e le veniva dato per scaldarsi i piedi, le babbucce e lo scialle di lana fatti da nonna.
Rosa sorride ai ricordi. Quel gioco della memoria le piace e decide di non rinunciarci. Socchiude gli occhi, si lascia andare sulla sedia, si fa prendere per mano e si fa condurre indietro nel tempo.
Se si concentra, riesce ancora a vedere il pavimento di linoleum del soggiorno coi suoi bozzi irregolari, i mobili massicci e altissimi, la stufa a legna bianca coi bordi blu, la piattaia coi cassetti colmi di uova di gallina e di oca.
“Le uova si conservano avvolte ad una ad una in fogli di carta di giornale e poi in un cassetto”, le diceva la nonna.
Quelle che non si conservavano e che non venivano cucinate nell’immediato, Rosa le beveva fresche, appena tolte dalla cesta di cova delle galline. Una strofinatina al guscio, un buco con l’ago grosso da lana sopra, uno sotto, poi appoggiava le labbra e succhiava.
Il bianco, insapore e gelatinoso, non la disturbava più di tanto, il rosso, dolce, cremoso, le riempiva la gola di gioia.
Rosa si porta le mani alla bocca e spalanca gli occhi: da quanto non beve un uovo crudo?
Fra i sapori dimenticati ritrova quello delle prugne, tagliate in metà e messe ad essiccare al sole sotto diversi strati di garza bianca e sottile, per proteggerle dalle mosche.
Il calore dell’estate rende la loro consistenza gommosa e il sapore aspro e acidulo: una vera delizia.
Rosa si volta e non è più estate: è primavera. Se ne accorge dal calore del sole, più gentile, meno implacabile.
Rosa corre lungo il muro est della casa, attraversa l’orto, lascia alla sua destra la casa dei conigli con le nidiate di cuccioli e il pollaio chiassoso, passa il ponticello e si ritrova nel campo grande.
A sinistra il mucchio di letame emana un odore noto e per nulla sgradevole. Naturale, in fondo.
Rosa corre oltre e finisce nel campo di erba medica, ancora da tagliare e più giù, fino ai filari ordinati di piselli. E’ primavera e non glielo dice soltanto il sole, più gentile e delicato, ma anche il sapore dei piselli, freschi nei loro baccelli appena accennati, tiepidi, croccanti. Rosa li sgrana e si lascia scivolare sulla lingua le piccole perle verdi. Con la lingua, le schiaccia contro il palato: sono dolci come zuccherini, più come frutta da marmellata che come verdura da fare in padella.
Dolci e lisci. Lisci come i chicchi di meliga che Rosa sgrana scrupolosamente, passando le dita corte sulle pannocchie dorate.
Prima si spogliano delle loro vesti secche, poi dei loro frutti. E’ un gioco di mani e di torsioni che le lascia le dita doloranti e il grembo bianco di polvere fine e impalpabile.
Quando i nonni non la vedono, Rosa entra di nascosto nella casa dei conigli, apre un baule che era appartenuto alla bisnonna e che ora custodisce il cibo per le bestie, e annega le braccia in quei semi secchi colore dell’oro. Rosa muove le piccole braccia come se nuotasse e quel fruscìo sommesso le ricorda il rumore del mare.
La casa dei conigli è buia, piena di oggetti vecchi e polverosi, la maggior parte dei quali a lei proibiti.
«Non toccare nulla, ti fai male.» dice il nonno.
E lei non chiede perché. Rosa non chiede mai il perché di nulla. Le basta che un adulto glielo dica e lei ci crede. Degli adulti ancora si fida.

Un rumore improvviso dal soggiorno la slega dai ricordi.
«Non è possibile!» urla Caterina «ma ti rendi conto? L’hanno lasciata qui da sola. Ma questi sono pazzi, ma io li denuncio.»
Caterina si fa strada attraverso gli scatoloni del trasloco e con gesti bruschi afferra la carrozzina di Rosa, facendola girare su se stessa.
«Dai mamma, andiamo, adesso ti porto fuori.»
Rosa non dice nulla e lascia cadere il libro.
«Si vede che gli uomini sono andati in pausa mentre la badante era fuori per qualche commissione e non si sono accorti di lei.» dice conciliante il marito di Caterina.
Ma Caterina è furiosa: «Quella se ne frega oramai perché sa che ha finito il suo lavoro. Ed era ora. Finita la cuccagna, bella mia. Guarda io davvero non ce la faccio più, non sai che sollievo portarla in questa casa di cura.»
Il marito di Caterina guarda Rosa.
Rosa socchiude gli occhi.
«Cate… »mormora il marito.
«Ma che Cate e Cate» grida lei spingendo la carrozzella della madre fuori dall’appartamento «tanto oramai lei non capisce più nulla. Non vedi? Non c’è più. Più! Più!»
Poi spinge la carrozzella dentro l’ascensore e pigia il pulsante del pianterreno: «Adesso mi sente, quella cretina…»

©Viviana Gabrini
Il racconto è tratto dalla raccolta I fili di Arianna di Viviana E.Gabrini, Primula Editore, 2015

©Foto di copertina Pixabay

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