Ricattare un santo in mancanza di Nembo Kid [4] di Normanna Albertini

© ph. N. Albertini

LA VENTA

Stamattina c’è il vento. «Perché ti sei messa lì?» chiedo a mia madre, vedendola dalla parte del letto che occupava abitualmente mio padre, e lei, con noncuranza: «Mah, non lo so, si vede che stavo bene qui.» Alzo le coperte e scopro un asciugamano steso sul lenzuolo. Diciamo che si è arrangiata da sola, stanotte, dopo aver inzuppato i pannoloni e le traverse. Faccio finta di niente.

Chissà come avrebbe commentato mio padre, se fosse stato ancora tra noi.

Avrebbe sicuramente detto di lasciar perdere, che tanto con lei non si ragionava, che era inutile: «Se le dici una cosa, lei fa il contrario, testarda come un mulo.»

Mi manca l’ironia di mio padre, ho saudade del suo sorriso e delle sue battute con i quali riusciva a sgravare qualsiasi situazione. Come quella volta in cui lo aveva fermato una vigilessa chiedendogli patente e libretto (mio padre ha guidato fino a ottantasette anni, cioè fino a sei mesi prima di morire).

Lui aveva tirato fuori la patente dal portafogli, ma non il libretto, infossato e disperso nel mucchio di carte pigiate nel cruscotto. Aveva frugato, ispezionato con cura: niente.

Allora, aveva consegnato il malloppo nelle mani della vigilessa e, mentre lei sfogliava il tutto, lui aveva recuperato la tessera elettorale nella tasca interna del giubbotto. Probabilmente, la portava sempre con sé. «To’, prendi questa, tanto io a votare non ci vado più.» E lei: «Cosa? Ma scherza? Questa non va bene! Mi serve il libretto.» E lui: «Come, non va bene? Non è un documento?» Nel frattempo, in mezzo alle carte, era comparso il libretto – finalmente! – così la vigilessa aveva rassicurato mio padre che era tutto a posto e che poteva andare.

Quando me lo raccontò, tutto fiero, gli feci presente che la tessera elettorale non è il libretto di circolazione, che non poteva sostituirlo; lui, senza esitazione, mi redarguì: «Quante balle che hanno, è un documento d’identità, no? E la vigilessa, di chi credeva che fosse la macchina, se la guidavo io?»

Ci voleva solo lui a tener testa a mia madre. «Lasciala fare, lascia perdere…», mi avrebbe detto. Che poi, invece, ieri sera mia madre si è infilata sotto le lenzuola fresche di bucato, quelle belle pesanti, morbide, di flanella, e sembrava tranquilla. Calde: le uso esclusivamente per lei, dato che noi non le tolleriamo. Ha trafficato un po’ per ripiegarle perfettamente sul piumino, poi, inaspettatamente, è scattata, con il consueto tono prepotente: «Madonna! Queste lenzuola sono bagnate!»

Sulla mensola del calorifero dovrei collocarci più santi; mi sa che tu non mi basti, caro fraticello. Sono uscita di camera senza augurarle la buonanotte, non ce l’ho proprio fatta. Tu sei santo, io no. Qualche minuto, e lei già non si ricorda. Come non si ricorda del perché, praticamente ogni sera, quelle lenzuola sono pulite e profumate; del perché sono sempre diverse.

Stamattina c’è il vento; la venta, avrebbe detto mio padre, che declinava al femminile tutti i fenomeni atmosferici o gli oggetti particolarmente pericolosi o grandiosi.

C’è una terribile venta e mia madre è preoccupata. Ha paura che la terribile s’infili sotto al tetto e scoperchi la casa. Inutile rassicurarla dicendole che il tetto è di cemento e che la venta non ha possibilità d’infilarsi in nessun pertugio per sollevarlo. Probabilmente è rimasta ai tetti di legno della sua infanzia, quelli con i coppi appoggiati sui travicelli, tanto che la neve e la pioggia gocciavano tra le fenditure e le cadevano sul naso, mentre dormiva.

Grazie alle chiacchierate con mio padre, avevo appunto scoperto che, nel nostro dialetto, quando di qualcosa si volevano evidenziare gli eccessi e il rischio, si cambiava genere del vocabolo: dal maschile al femminile. Così, mio padre diceva che era vento quello che non durava più di tre giorni, altrimenti diventa venta.

Il vento, sui nostri monti, ha tre nomi: tramontana (tutti i venti gelidi e, più o meno, provenienti dalla pianura), scirocco (tutti i venti caldi e umidi, dunque anche il libeccio), e l’aria di vento, cioè il venticello accettabile, quello che dissemina i petali dei ciliegi a primavera. Poi c’è l’aria, semplicemente l’aria, quando è brezza leggera, piacevole, refrigerante in estate, mite in inverno.

Quella brezza leggera di cui parla Elia, il profeta: “Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.”

Vento e respiro in ebraico significano anche spirito, e vengono tradotti con la parola rùah, che è di genere femminile. La venta, appunto. Però, rùah è la brezza, ed è forza che genera.

Forza di un dio donna, o della sua parte femminile.

Consolante sapere, caro fraticello, che Dio non è tramontana, non è terremoto, non è fuoco che distrugge, ma è rùah che feconda e cura. La venta di mio padre, invece, era più infernale; era quella che distruggeva le messi, devastava i frutteti e le vigne, troppo presto strappava i ricci dai castagni. «Stai attenta che ti porta via!» mi dicevano quando volevo uscire di casa nonostante le raffiche, e io desistevo, perché avevo visto abbattere alberi molto, molto più pesanti di me, che ero una bimba e pure troppo magra.

Del resto, anche il diavolo avrebbe potuto portarmi via, diceva mia nonna. La venta, femminile come la falce e come la curtlìna, l’ingombrante coltello usato da mia madre per affettare il prosciutto o tagliuzzare le verdure, era una sequestratrice di bambini.

Femminile come la fanghiglia di argilla collosa, quella – raccontava mio padre – di quando i morti di Beleo (partigiani russi, o spie, non ho mai ben capito), furono trasportati a Gombio a spalla per i castagneti, perché non c’era la strada: «I vrè védre i prèt d’adèsa andàr a toer un mòrt là i po’ purtàl so a pèe in c’la ‘fanga’ lé!»1 aveva concluso.

Caro il mio fraticello, come vedi, a parere di mio padre non ci sono più nemmeno i preti di una volta, quelli capace di sfidare la fanga femmina (e, probabilmente, tutte le altre femmine del genere umano).

Nel frattempo, con il vento che continua a sbatacchiare persiane dimenticate aperte, capovolgere bidoni dell’immondizia e veicolarne il contenuto sugli alberi, flettere rischiosamente le antenne e far volare qualche tegola, mia madre non si tiene.

Si è appena alzata, ha finito ora di fare colazione e dice che va a letto. «Perché?», le chiedo, «Perché… cosa vuoi che faccia qui, con questo vento? Sei curiosa, eh!», «Ma non puoi andare a letto alle dieci del mattino!» insisto, appena appena spazientita.

Lei sbuffa, si dirige verso la portafinestra, si piazza sulla sedia, incolla il naso ai vetri ed esclama: «Madonna, ma hai visto?», «Cosa? Cosa c’è da vedere?», «Ma il vento, no? Non hai visto che vento c’è oggi?» No, mamma, non me n’ero accorta, figurati.

Caro santo che stai sul termosifone, ho chiesto all’assistente sociale se, per mia madre, può aggiungere qualche giorno in più di frequenza al Centro diurno, ma pare che non sia fattibile.

Sono pieni, forse, o forse non ho capito in base a quali criteri assegnino i posti; o forse, tutte e due le cose insieme. Di sicuro, l’assistente sociale non è in grado di aiutarmi. E non lo sei nemmeno tu.

Intanto, per andare ai Servizi sociali a informarmi, ho bruciato la mia mattinata di libertà, quella in cui mia madre sta lassù con le amiche e io, in genere, provo a riposarmi e a recuperare un po’ di senno. Come Astolfo, dovrei salire sulla luna a cercare l’ampolla contenente il senno: “Astolfo tolse il suo; che gliel concesse/lo scrittor de l’oscura Apocalisse.”

In attesa dell’ampolla del mio senno perduto, butto giù un antinfiammatorio, che la venta (e mia madre) sono femmine specializzate nel fare scoppiare emicranie da paura.

Alla faccia dell’Apocalisse.

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1 “Vorrei vedere i preti di oggi andare a prendere un morto fin lassù e poi portarlo giù a piedi in quel fango!”

© Normanna Albertini, 2018

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