Ricattare un santo in mancanza di Nembo Kid [3] di Normanna Albertini

Scorte di carta

“Sono qui in Rsa, mi scrive mia nipote Elena sul cellulare, “la nonna sta conversando con le amiche e dice che la settimana scorsa è stata a Gombio, dove don Valerio aveva organizzato un ritrovo di tutti i paesani…”. Peccato che don Valerio sia morto da diversi anni e che non fosse più parroco di Gombio da decenni. E che mia madre non partecipasse mai né alla messa né a raduni con il prete. Come credi che mi senta, amico mio che sei nei cieli, mio santo da me requisito in attesa di un miracolo, come credi che stia, io, quando mia madre fa così?
“C’era pieno, secondo lei”, continua mia nipote, “e, secondo lei: vero che l’ambiente non è molto vasto, ma è tenuto ben pulito. Ora sta spiegando alle amiche che sono sua figlia…”.
Hai capito, caro fraticello? Ha le allucinazioni, eppure ce ne accorgiamo solo noi familiari stretti. Per chi la incrocia dieci minuti, per chi viene da fuori – persino per il medico – siccome riferisce le sue storie in modo verosimile, ha un cervello ancora funzionante. Sono io ad avere le allucinazioni.
«Mamma, è venuta Elena a trovarti?», le chiedo a sera, all’uscita dalla struttura.
Scuote il capo decisa. «Io non l’ho vista». Non l’ha vista: garantito, se l’ha scambiata per me. Comunque, le ragazze mi dicono che non è messa male rispetto agli altri ospiti, e magari fossero tutti come lei. Sì, ogni tanto scappa dalle stanze del diurno, zoppicando e barcollando con il suo bastone – che se cade, va in mille pezzi, mi ha detto l’ortopedico – e fila nel salone a chiacchierare con gli ospiti della casa protetta, però è tranquilla. E mangia come un lupo, dicono le ragazze.
I panini che avanzano a pranzo, glieli trovo nella tasca della giacca, ben avvolti, ma proprio imballati con strati di tovaglioli, che non abbia a cadere neanche una briciola.
Chissà perché gli anziani diventano tutti raccoglitori compulsivi di carta e metodici ripiegatori della stessa. E come la ripiegano bene, meglio della pasta sfoglia, con precisione geometrica!
Mia mamma s’infila tovaglioli ovunque: nelle tasche dei pantaloni, nel reggiseno, nelle maniche delle maglie. La sera, quando la spoglio, è tutto uno svolazzare di carte sul letto e sul pavimento, tovaglioli di ogni colore, che poi, ossessivamente, lei raccoglie e infila sotto al cuscino, non si sa mai che possano servire.
L’accumulo compulsivo di carta era anche di mia suocera: sacchetti del pane a decine, ripiegati da sembrare stirati a caldo, carte dell’affettato, carta dei pacchi regalo, carta lucida dell’uovo di Pasqua, e poi le terribili bustine di plastica della spesa, fatte su a triangolo e infilate in altre buste della spesa e poi infilate in qualche tiretto. Mia suocera aveva vent’anni, durante la seconda guerra mondiale, e ricordava che mancava il sapone, che non si riusciva a trovare una crema e scarseggiava il sale. Quando morì, schiudemmo le ante di alcuni pensili e ci apparvero cataste di sapone di marsiglia, creme, saponette, borotalco, mentre un armadietto di cucina era colmo di pacchetti di sale. Si era preparata le scorte per un’altra – eventuale – guerra.
Mia mamma, invece, io non lo sapevo, ma aveva saturato la madia e la credenza di vassoi di carta: quelli della pizza, quelli dei pasticcini, quelli delle torte che le portavo io. Non li usava più, ma li conservava tutti: unti, puzzolenti, affastellati in perfetto ordine, che non si sa mai.
Ovviamente, aveva conservato anche gli immancabili cartocci del pane. Carta ovunque, a riempire mobili, carta in ogni pertugio, ma in ordine. Ci ho messo settimane, dopo aver avuto finalmente mano libera in casa sua, per portare alla discarica tutta quella carta… e non ho finito. Di secondo lavoro, credo che potrei ormai farmi assumere alla locale discarica (sempre che non serva la laurea in qualche materia specifica).
A volte canzono mia madre, per tutta quella carta ammassata tra i suoi indumenti. Le dico che è davvero parente di Pietro Manenti (lontanissimo consanguineo di mio nonno), tuttavia lei non ha idea di chi sia, non se lo ricorda. Si ricorda solo quello che le pare, penso io, nei momenti miei di perfidia… I parenti scomodi non li rammenta nessuno.
Ecco, caro santo fraticello: Pietro lo avresti apprezzato. A suo modo, aveva optato per la povertà e per l’allegria da donare agli altri. A modo suo, ti somigliava. In fondo, un po’ strampalato lo eri anche tu, no? Però, tra la giocondità da regalare e i peccati da condonare, tu avevi scelto la seconda: la parte buia. Lui, invece, ballava.
Pietro non raccoglieva tovaglioli, raccoglieva giornali. Non perché amasse essere al corrente delle cose del mondo: Pietro i giornali non li leggeva e non pareva interessato ad altro che al contatto continuo con le persone e a un bicchiere di vino gratis. Pietro Manenti li usava per imbottirsi: a strati, tra maglia e camicia, camicia e panciotto, panciotto e giacca. Si vestiva di carta per poter passare la notte all’addiaccio, in qualche angolo di Castelnovo ne’ Monti, senza morir di freddo.
Era un barbone per scelta, per filosofia di vita, per voglia di libertà. Ripeteva a tutti di aver affittato la casa ai topi. Faceva lo scemo per non pagar dazio – dicevano i parenti – cercando di nascondere l’imbarazzo. Faceva il matto, ma non lo era; lui, per primo, lo confessava, quando ritrovava un barlume di lucidità. Dicono fosse stata la guerra, o il servizio militare, o un amore non corrisposto a ridurlo così. Faceva il matto. Ai santi mandano le commissioni vaticane per verificare se sono matti o ispirati da Dio, i barboni, invece, sono più liberi, possono essere tutte e due le cose insieme, tanto, nessuno si sposta per sottoporli a processo. Fanno notizia solo se qualche criminale annoiato li trasforma in falò. Quanti di loro, in realtà, saranno santi?
Nella piazza dove sostavano le corriere, vedevi comparire Manenti (lo si chiamava con il solo cognome) vestito del suo solito abito grinzoso e sdrucito, i giornali che spuntavano dal maglione, il cappello di feltro verde scuro, incatramato dal sudore di anni. In due e due quattro s’inventava un teatrino. Si metteva a ballare e a stornellare, recitava ammiccanti poesie alle ragazze, rideva, mettendo in mostra gengive nude e i monconi di (forse) quattro molari; non chiedeva soldi, voleva per davvero soltanto portare allegria: «Quattro palmi sotto il mento ci sta proprio un bel strumento…», cantava alle donne in giro. Ma non diventava mai molesto. Un’anziana infermiera lo ricorda quando, affamato, entrava nelle cucine dell’ospedale a chiedere un pasto caldo – che certo non gli veniva negato – poi non finiva più di ringraziarle e di baciar loro le mani. Oggi sarebbe rinchiuso in qualche Casa di Carità o avrebbe già subito qualche trattamento sanitario obbligatorio. Le comunità dei piccoli paesi e dei quartieri cittadini di un tempo, invece, sapevano ritagliare tempo, spazio e carità anche per gli eccentrici, i picchiatelli, i vagabondi. Ci stavano anche loro, insieme con i bambini che giocavano in strada.
Mia mamma, però, i parenti scomodi non li ricorda. Caro il mio fraticello con l’aureola, sono diversi giorni che lei non bagna il letto, non è che mi hai ascoltato? O sarà merito delle vitamine che ho aggiunto alla sua dieta? Fosse per intervento tuo, ti prego: continua. Non ho altro aiuto se non da te. Però, a una condizione: non mi apparire e non disseminare profumi alieni in giro, né di violette, né di rose.
Non reggerei al turbamento. Troppo pesante da sopportare, subirei uno shock irreversibile.
Sono cresciuta con i racconti di madonne che apparivano ovunque a bambine e bambini; sempre poveri, affamati, destinati ad ammalarsi e a morire giovanissimi, (tranne Lucia di Fatima, che lei è morta proprio vecchissima), e il mio terrore era dover affrontare un’apparizione. Rimuginavo che non volevo ammalarmi come Bernadette, e che il paradiso poteva aspettare. Già mi aveva sconvolto la lettura di Incompreso (con il protagonista talmente maltrattato dal padre anaffettivo da arrivare a rischiare la vita e rimanere paralizzato per salvare il fratellino), che mi mancava solo di essere scelta da qualche entità divina come tramite per i suoi messaggi.
Io non volevo diventare santa, se ciò esigeva una tale sofferenza. Caro fraticello, almeno mi sono risparmiata ciò che tu hai subìto, come i giudizi pesanti dell’altro fraticello dottore che veniva a studiarti: «Ritengo che sia uno psicopatico…». «È un soggetto a intelligenza ben limitata, che presenta le note caratteristiche di una deficienza mentale di grado notevole con conseguente restringimento del campo della coscienza». «Né i suoi scritti, né ciò che si racconta, né ciò che egli dice rivelano un animo innamorato di Dio. È un buon religioso tranquillo, quieto, mansueto, più per opera della deficienza mentale che per opera di virtù».
Vedi? Non conviene essere santi. Da morti, forse, ma non in vita. Per stare male, mi bastava essere la figlia maggiore (di un anno) e di essere, spesso, ritenuta imputabile anche delle marachelle di mio fratello, esattamente come Andrea, il protagonista di Incompreso.
Mi bastava essere trattata da adulta, quando avrei avuto esigenze da bambina.
Ora è mia madre la bambina, con esigenze da adulta. E io non sono una santa.

©Normanna Albertini, 2018

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