Ricattare un santo in mancanza di Nembo Kid [2] di Normanna Albertini

© ph. N. Albertini

COSA VUOI SAPERNE TU?

Le fisso i capelli con quattro fermagli vivaci: graziosi, rosa e blu a pois bianchi, da bimba.
A lei piacciono; glieli metto, altrimenti con le dita si pettina all’indietro, si pressa i capelli, li stira tanto che sembra uscita da una di quelle crudeli foto pre legge Basaglia.
Glieli ho dovuti far tagliare, dopo l’ultimo ricovero in ospedale: via la grossa treccia grigia che poteva creare problemi di governabilità. Troppi capelli, troppo lunghi e le operatrici sanitarie, sempre affannate per il carico di lavoro ormai insensato, non ce la possono fare. Comunque, lei non è abituata ai capelli corti; se li sposta dalla fronte, dalle orecchie, li maltratta, li pigia sul capo a dispetto delle mani deturpate dall’osteoartrosi. Con quelle dita storte riesce a fare poco altro, ma riesce comunque a spettinarsi.
“Dai, le mie amiche saranno già tutte su.”, mi dice, mentre le passo la crema sul viso e sulle mani. Ha indossato volentieri un maglioncino amaranto: forse le sue amiche le avranno detto che le sta bene, perché solitamente non gradisce i colori sgargianti. O sarà stato qualche amico a farle i complimenti. È agitata: bisogna muoversi, perché tutti saranno ad aspettarla lassù al Centro diurno, non si può fare tardi. In realtà, dubito che, dopo mezz’ora, si ricordino di lei, visto il pessimo livello  di lucidità degli ospiti, ma glielo lascio credere. “Ah, sai, con Savino ci ballavo sempre…”, dice riferendosi a uno di loro, d’una decina d’anni più anziano di lei. “Ma quanto puoi averci ballato, mamma?”, “Ci ho ballato sì! Andavamo sempre a ballare alle feste di paese, eh… ho ballato sì, cosa vuoi saperne tu!”
Ho i nervi a fior di pelle, anzi: mi sento proprio senza pelle, e quel “cosa vuoi saperne tu” è sale sulla carne viva. Poi raccontatemi che “ci vuole pazienza”, che “lo sai, è la malattia”.
È la malattia sì, ma lei è mia madre e la sua continua svalutazione riapre piaghe mai chiuse.
Caro il mio santo che stai sul termosifone, quanto può aver ballato, mia madre, se a diciotto anni era incinta di me e se, poi, negli anni seguenti, non è più uscita di casa per divertirsi?
Pensa che non rammenta, a distanza di cinque minuti, cos’ha mangiato, o se è andata in bagno, ma le sagre con i suonatori e i suoi compagni di danze di settantacinque anni fa sì: quelli li ricorda.
Un violino, una fisarmonica, una chitarra, qualche fiasco di vino e si ballava. Sulle aie, dove si trebbiava il grano a luglio, ma anche nelle radure dei boschi, sotto i castagni. Le ragazzine in cerca del moroso (perché se non avevi un moroso a quattordici anni, poi rimanevi zitella) e pattuglie agguerrite di vecchie nonne ad accompagnarle. Le vecchie nonne avranno avuto cinquanta, sessant’anni, eppure erano indubbiamente vecchissime: sdentate, avvolte nei loro scialli neri, con il fazzoletto in testa e l’immancabile grembiule legato proprio sotto i seni cadenti. Vecchissime e implacabili guardiane delle loro nipoti ancora inviolate.
Le ragazze animavano le serate con discrezione, ma bisogna pur raccontarla fino in fondo: c’era sempre quella che “la dava via”, nonostante la nonna gendarme, quella con cui si divertivano un po’ tutti e tutti sapevano che “ci stava”. Quella che si ripresentava sul ballo, dopo essere sparita nel buio, con la camicetta sgualcita e la gonna macchiata. Mia madre ne parla ancora con grande scandalo. Però dice che erano figlie di famiglie alla fame, e che lo facevano per avere qualcosa da mettere sotto i denti. Lo dice per giustificare qualcosa che anche oggi le pare troppo vergognoso da accettare.
Un uomo solo dovevi conoscere, con un solo uomo dovevi stare per tutta la vita.
Qualche mese fa, davanti a mio padre nella bara, lei lo ha ripetuto più volte: “Ho avuto solo lui…”.
Caro il mio santo, mia madre smise di ballare per sempre perché arrivai io. Come poteva essere felice, entusiasmarsi per la sua bimba? E come poteva essere felice, in seguito, quella bimba?
Donne che subivano le gravidanze e che dicevano “è capitato”; figli “capitati” che si rendevano conto di essere di troppo, di essere un peso; donne che avrebbero volentieri scelto altre possibilità di vita, quando non c’erano altre possibilità di vita.
Sai, stasera ho sulle spalle una montagna. E tu non fai niente. Mi ascolti, poi non fai niente. Guarda che ho sempre l’opzione della fuga nei boschi a farmi sbranare dai lupi. Lo sai che equivarrebbe a una morte voluta, dunque alla dannazione della mia anima, vero? Non ti interessa? Lo faccio?
Ci riesci, non dico a operare un miracolo, ma almeno a togliermi un pezzetto di montagna dalle spalle? Dai, una piccola frana, uno smottamento… È la quarta bustina di antinfiammatorio che mando giù, oggi, e la montagna cresce.
Non mi consola sapere che c’è chi sta peggio. Un’amica, per esempio, che è diventata mia amica dopo un incontro a una fiera del libro, anni fa. Piena sintonia subito, uno sguardo, un sorriso e poi la sua storia di grande dolore. Io lo sento il dolore degli altri e lo fuggo, perché se lo assorbo mi avvelena. Con lei no, il male non passava da lei a me, non mi si appiccicava: lei se lo teneva ben raccolto dentro ed era talmente inerme che avrei voluto coccolarla. Non voleva scaraventarmi addosso il suo dolore, voleva dialogo, complicità. Neanche ascolto, perché sono stata io a chiedere.
S’era imbattuta, a diciotto anni, in un uomo ricco di famiglia ricca: l’ancora di salvezza, la barca cui afferrarsi, per lei l’occasione di scappare da sua madre. Una madre disamorata.
Caro il mio santo, hai presente quelle donne religiosissime, così convinte che l’unico peccato sia il sesso? Quelle che rifiutano di poter provare piacere e si trasformano in bombe di crudeltà? Era così.
La mia amica era corsa via alla prima occasione, era fuggita dalla madre spietata, aveva sposato il ragazzo ricco di famiglia ricchissima che la trattava come una principessa, affidandosi completamente a chi l’aveva liberata. Era evasa dalla prigione di cattiveria di chi l’aveva dovuta partorire solo per obbligo.
Il ragazzo ricco pareva Nembo Kid, un principe, un angelo della salvezza, invece era Barbablu.
Una vicenda cruda, orribile. Magari te la racconto un’altra volta? Sai, però, gli scherzi del destino? Oggi, la mia amica, risposata con un uomo d’oro, si ritrova con la madre ultranovantenne in demenza: “Mio marito allarmato per il mio stato di salute e di prostrazione, dopo avere portato mia madre in una struttura, mi ha ‘obbligata’ a partire per una lunga vacanza.”, mi racconta, “ Però dopodomani lui ritorna a prenderla, perché il costo di una casa per anziani è molto alto.  Io rimango ancora un po’ in questo complesso alberghiero, cercando di riprendermi e soprattutto di dormire.  Sono ormai quattordici anni  che faccio da badante, ed è pesante… molto. Mio figlio non ha retto la situazione e non si fa mai vedere. Per fortuna mio marito è andato in pensione in anticipo, proprio per starmi accanto. Non ce la facevo più: ormai ero vittima di depressione e attacchi di panico.”
Sì, caro santo che stai nella mia camera, di Barbablu e di come trattava la mia amica ti parlerò un’altra volta. Ti dico solo che il ragazzo ricco aveva la casa piena di fucili, pistole e coltelli. E soldi abbastanza per coprirsi le spalle pagando fior di avvocati. Non la prendeva a pugni, no, la mia amica, si limitava a spintonarla e a calciarla. La calciava come si può calciare un cane, e già sai bene che non si dovrebbe.
Non mi consola sapere che c’è chi sta peggio e che, almeno, io non sono mai stata picchiata da un uomo; nemmeno da mio padre. “I cul lavùr lé cùsa vrèl dir?” (quella cosa lì, cosa vorrebbe significare?), disse mio padre un giorno, osservandomi sulla cyclette. Tradotto, esplicitando i sottintesi: “Che senso ha fare fatica per niente e senza produrre niente, quando io, da giovane, dovevo farmi un sacco di chilometri al giorno in bicicletta per andare a lavorare?” Ho nascosto la cyclette nella mia camera, sono ingrassata parecchi chili e, fin che lui è stato qui con noi, non l’ho più usata. Era burbero, schivo, ma mai violento. Almeno, compensava il carattere suscettibile e instabile di mia madre. A volte, penso che le demenze, come il vino, rivelino l’indole profonda delle persone, perché mia madre ha mantenuto – e peggiorato – tutti i suoi difetti; non uno che sia scomparso, invece.
Gli attacchi di panico li ho avuti anch’io. Il primo m’è capitato in piazza, qui in paese. Sono scesa dalla macchina e, di sorpresa, non ho più sentito le gambe, il fiato s’è strozzato in gola, il cuore ha iniziato a pulsare da far scoppiare le tempie, la vista s’è annebbiata. Mi sono aggrappata a un’auto in sosta, invocando aiuto. Un signore marocchino, che stazionava con un amico davanti alla farmacia, mi ha soccorsa e mi ha accompagnata su una panchina: “Hai il diabete?”, mi ha chiesto; ma no, io non ho il diabete, ho solo il colesterolo alle stelle, ma il diabete no, per fortuna.
Ci vollero poi mesi di accertamenti, esami, visite mediche per diagnosticare le crisi di panico e trovare la cura giusta. Ho smesso i farmaci da poco. Spero di reggere.
Mi sento San Bartolomeo con la pelle in mano (la sua, dopo che l’hanno scuoiato), però tutto il grasso che ho messo su mi protegge e mi difende. Mica è vero che è superfluo.
È una corazza che custodisce le ferite e tiene al riparo dagli squali. Mai rivelarsi troppo, mai farsi pecora in un mondo di lupi.

© Normanna Albertini, 2018

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