Ricattare un santo in mancanza di Nembo Kid [1] di Normanna Albertini

BANDIERA BIANCA

Ci fosse Nembo Kid, chiederei a lui. Ma non esiste. Mi ero innamorata di lui, da bambina, quando ancora non si chiamava Superman e per collega aveva la bionda Nembo Star; in ogni caso, lui non esiste. Dunque, non ho alternativa: parlo con te. Invoco te.
Che, almeno, una vita prima della morte l’hai avuta. Ti prendo in ostaggio, ti ricatto.
Ricattare un beato, in mancanza d’altro, non è certo un crimine; tutt’al più è disperazione.
Stai lì, sulla mensola del termosifone: un ‘santino’ che mi regalò – non ricordo chi – e che fisso ogni sera, mentre m’infilo sotto le lenzuola (e le coperte, e pure una pelliccia di volpe che vinsi in un supermercato ma che non ho mai messo). Ti guardo e parlo con te; perché non si sa mai.
Quando si è disperati, da dove possa giungere la salvezza non si sa mai.
Gli scogli vanno tutti bene (sempre che non diventino pericolosi). E tu non sei un pericolo.
La pelliccia di volpe fa compagnia e conforta. È morta come te, caro santo, ma ha avuto una vita.
Non so nemmeno se sono disperata. Rassegnata, forse; sconfitta. Mi arrendo: inutile che puntiate la pistola da lassù, voi tutti santi numi delle altezze. Mi arrendo. Bandiera bianca.
Dopo penserò alla disperazione; per il momento non ho tempo. ‘Dopo’ non so ‘cosa’ sia, né in che luogo né in che periodo, però so che ci sarà un ‘dopo’; una fine, una resurrezione.
Prima o poi scappo – mi dico – lascio tutti e scappo (sui monti, in mezzo ai boschi, a campare di bacche e lucertole, a farmi divorare dai lupi che, però, dicono non attacchino gli umani), tuttavia lo faccio ‘dopo’: quando avrò risolto anche questo ennesimo problema e sgarbugliato questo ennesimo viluppo di miserie. Mio padre non verrà a cercarmi. Non può.
Mio padre, quando aveva voglia di erbazzone, scendeva nell’orto e raccoglieva le bietole.
Pali di castagno conficcati nel terreno sostenevano una rete da polli e un cancelletto leggero leggero, dello stesso materiale, delimitando i pochi metri quadri del suo orticello; dentro, una tinozza di plastica e un tubo di gomma per innaffiare le piante. Indispensabile, il recinto, per tenere alla larga cinghiali e caprioli, anche se proprio un capriolo, mio padre, ce l’aveva trovato dentro, perché quelle deliziose bestiole saltano anche le recinzioni.
Come culla per le sue verdure, mio padre aveva scelto un luogo dove, molti anni prima – e per decenni – c’era stato il letamaio. Ché il letame rende allegri gli ortaggi. E pure chi se ne prende cura. Sul letamaio, da bambina, avevo spinto la carrozzina contenente mio fratello, il quale era finito a faccia in giù sul letame. Certo che, prima di fare un figlio dopo l’altro, bisognerebbe essere sicuri di potersene occupare; allora, in ogni caso, i figli capitavano. Credo che nessuno li volesse davvero, o forse le famiglie volevano solo figli maschi. Io ero nata femmina, purtroppo.
L’erbazzone, comunque, negli ultimi tempi dovevo cucinarlo io a mio padre. Mia madre non è più in grado di seguire nemmeno il procedimento della bollitura di un uovo da almeno cinque anni.
Si chiama demenza. Si chiama ‘vivere nel delirio’ per chi se ne deve occupare.
Torta d’erbe abbastanza laboriosa, l’erbazzone, come tutti i piatti inventati dai poveri, quei piatti che ora si pagano l’ira di dio nelle trattorie del ‘gusto sapiens’ e ‘slow food’ e altre sigle che fanno più o meno ‘fico’ (e non sono certo all’altezza di quelli originari).
Non dicevo mai di no a mio padre. Non si meritava un no. Cucinavo le sue bietole.
Anche se, quando io nacqui, lui si arrabbiò perché ero femmina. Dicono che avesse già preparato il nome per un maschio, dicono che sia entrato nella camera, che mi abbia guardato e se che ne sia uscito senza dire niente. Dicono che ero bruttina, magrissima, con i capelli neri e lunghi. Poi ero femmina. Mio padre non c’è più. Ma io c’ero, nelle sue ultime ore.
“A Cavariàg s’a ta smèn i fasö a nas i làdre”, mi raccontava tempo fa. Lui raccontava sempre, come un pastore del deserto, come uno dei narranti erranti che crearono i libri sacri delle antiche religioni. Cavriago è un comune in provincia di Reggio Emilia dove ancora è presente un busto di Lenin e chissà perché lì, secondo mio padre, sarebbero dovuti nascere i ladri dai semi dei fagioli.
Mio padre leggeva i giornali e seguiva la politica in televisione, oltre a lavorare in campagna e nei boschi finanche a quasi ottantotto anni. Gareggiando con il suo cuore, sfidando la vecchiaia, senza nessuna paura della fine. “Il ponte sullo stretto non è una priorità”, discutevano in televisione, e lui: “Be’, il faràn po’ la stmàna quen”, “lo faranno poi la prossima settimana”.
Intanto, io cucinavo l’erbazzone per lui. Gli cucinavo il nostro arcaico cibo degli dei. Bietole cotte e ripassate in padella con olio, aglio, prezzemolo, un rametto di rosmarino che poi si toglie; riso cotto nel latte (che deve essere completamente assorbito); ricotta di caseificio; parmigiano a più non posso; sfoglia sottile di farina impastata con olio e latte. Un tempo si usavano strutto e lardo, ma lui non digeriva i grassi: meglio l’olio.
Caro il mio santo e beato che stai sulla mensola, mio padre mi ha lasciato in un bel pasticcio. Meno male che ci sei tu, perché Nembo Kid non esiste. Mia madre, invece, c’è, come c’è la sua demenza.
Almeno, quando c’era mio padre, avevo di che sorridere. Come quando, manovrando il telecomando a caso, era finito sulla trasmissione di Magalli dove una signora stava spiegando come piegare velocemente le magliette. “Eh, – fa mio padre – a sre méi cla pighèsa Magalli. T’an ved cùma l’è gnû gràs?” E mia mamma: “L’è gnû anc pu cèch, gras i cichìn. Guarda cuma ag tira i ptùn ad la giaca!” E lui: “L’ara’ cambia sesso! ‘Sra dventa’ ma dona!” E lei, scandalizzata: “Adessa at mette a dir anch ad chi lavùr lé?” Traduco: “Eh, sarebbe meglio che piegasse Magalli, non vedi come è diventato grasso?”, e lei: “E’ diventato anche più piccolo, grasso e piccolino. Guarda come gli tirano i bottoni della giacca.” E lui: “Avrà cambiato sesso! Sarà diventato una donna!”, e lei: “Adesso ti metti a dire anche quelle cose lì?”
Caro il mio santo (che stai sulla mensola), quando leggevo Nembo Kid ci credevo che volare fosse possibile. Guardavo l’orizzonte a Nord, la pianura grigia di nebbia ai piedi delle Alpi lontane e pensavo che quando si vedevano le Alpi poi cambiava il tempo – così dicevano i vecchi – e che uno di quei monti era il Monte Baldo – dicevano i vecchi – e che mi sarebbe piaciuto volare fin laggiù, anche se nel frattempo si fosse scatenata una tempesta di neve. Quando leggevo Nembo Kid, c’erano festività religiose in cui tutti i rilievi a cerchio intorno al mio paese si riempivano di fuochi, la sera, fino a notte tarda. E io andavo a preparare la catasta del falò con mio padre nei giorni precedenti. Quando leggevo Nembo Kid, una notte sognai le navi. Erano proprio navi come quelle dei pirati, però volavano. Si erano fermate sul declivio di fronte a casa mia, in aria, ormeggiate tra le grandi querce che riparavano l’aia dal vento. Io mi ero svegliata proprio per il vento, ma anche per una strana gioia nel cuore. Mi ero alzata e mi ero affacciata alla finestra. Erano lì, le navi. Sollievo: avrei potuto volare. Volare via. Qualcuno, dalle navi, mi era venuto incontro e mi aveva sorriso, poi era finita. Non sono mai riuscita a ricordare altro di quel sogno, sicuramente dovuto alle mie abbuffate di libri, fumetti, giornali: Nembo Kid, ma pure Moby Dick. Il capitano Achab legato in croce dalle corde degli arpioni sul dorso della balena non l’avevo digerito per niente, e avrei voluto chiedere ad Herman Melville un finale diverso. Tante discussioni, tanta attesa, tutto quell’inseguimento e poi, invece di una vittoria, come capitava sempre a Nembo Kid, il mio valoroso Achab era precipitato negli abissi marini legato alla sua ossessione. Legato al suo desiderio. Io non avrei mai inseguito la balena, e glielo dicevo, mentre leggevo il libro. Ma niente.
Oggi, caro santo che stai sulla mensola, io sono incatenata, imbrigliata come Achab nelle funi delle fiocine, ma non per un desiderio, non per un’ambizione.
Oggi – che so di poter volare – devo soltanto sottrarmi al pericolo di affondare negli abissi.
Oggi lo capisco, Achab, il valoroso capitano, capisco la ricerca della sua riscossa.
Caro santo, per stasera mi arrendo: bandiera bianca. Spero di sognarle di nuovo, quelle navi volanti, e terminare il sogno.

© Nornamma Albertini, 2018

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