Palermo è un pesce morto di Alessandro Angeli

Capitolo 14

Dal non far niente ero finito a lavorare in casa di un vecchio notaio. Con i soldi che prendevo riuscivo appena a comprarmi le sigarette e a giornate intere ricopiavo le sue carte. Aveva un cervellone elettronico più grosso di lui che ogni tanto si bloccava per giorni interi e non voleva saperne di ripartire. Si era messo in testa di fare un archivio con tutte le sue notule e i suoi atti. Diceva che i tempi stavano cambiando e non voleva ritrovarsi con il travaglio di una vita sprecato e buttato al vento. E io lì, con l’indice puntato sulla tastiera, tutti i giorni, imperterrito, dalle otto di mattina alle cinque di pomeriggio, ricopiavo i suoi atti, li ordinavo per data di composizione e li dividevo in nuove cartelle.
Prima di arrivare guardavo la terrazza vuota, dove solitamente mi mettevo a fumare. Mi faceva uno strano effetto vederla da là, vederla senza di me. Quando entravo, lui era già curvo sul tavolo che mangiava la zuppa di latte.
«Già qua stai?»
«Perché?» rispondevo, «non sono le otto?»
«Eh va be’ e che ti ho detto, nun ti attidiari!» diceva e si alzava scocciato con tutta la vestaglia, per andare ad affogarsi nella sua stanza.

Mentre stavo al computer a scrivere, guardavo i palazzoni intorno fissarmi in silenzio e vedevo una donna che stendeva i panni, un altro, con un maglione a collo alto, guardava la televisione in piedi e intanto fumava e mi chiedevo perché me ne stavo lì ad aggiungere polvere a quella che già ci sommergeva. Poi quando i pensieri m’ingroppavano del tutto me ne andavo a fumare anch’io, cercando di sfuggire gli sguardi dabbasso. In strada l’insalataro parlava alle donne che sostavano lungo il marciapiede e intanto appizzava occhi e orecchi, poco dopo un picciotto magro come un fuscello gli si accostava e s’allontanava nell’altalena dei cestini di vimini che salivano e scendevano dai terrazzi. Poi la sigaretta finiva e tornavo davanti al cervellone, aspettando l’ora di pranzo che per fortuna arrivava. Solo allora mi sentivo bene, quando l’orologio si fermava un attimo sulle tredici lasciavo tutto e scendevo di nuovo in strada. Rimanevo seduto in attesa del cameriere che tutti i giorni con la solita espressione mi allungava il piatto di maccheroni. La cassiera, mentre al telefono diceva alla sua amica che si era messa a dieta, strascicava in una litania il conto, poi allungava la mano per arraffare i miei soldi e la ritraeva senza guardarmi. Preso il resto mi mettevo a camminare sui marciapiedi ammaccati, ormai spariti, sommersi dalle foglie d’insalata e dalle macchine parcheggiate ovunque, tutti quanti deambulavamo assorti e silenziosi in mezzo al traffico della città come tanti coyote.

(continua)

©Alessandro Angeli

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