Palermo è un pesce morto di Alessandro Angeli

Capitolo 11

 

A inizio estate me ne andai a fare il cameriere all’albergo ristorante Calò, a Mondello, e visto che avevo lasciato la scuola, mia madre si impegnò a farmi prendere. Lei si era raccomandata di comportarmi bene, che quella era gente onesta, invece erano degli stronzi, erano, si vedeva da lontano. Pensavano di essere chissà chi solo perché tenevano due lire e invece ignoranti come le capre erano. Mi bastava entrare là dentro, respirare l’aria sorvegliata che c’era, perché mi passasse all’istante la voglia di vivere. Per quarantamila lire dovevo ingoiare ogni giorno l’angoscia. “Tre mesi Tommaso”, mi ripetevo, “non sono eterni, finiscono’”. Con mia madre che continuava a chiedermi se al lavoro andasse tutto bene, preoccupata che potessi farle fare brutte figure, perché non accettavo di fare lo schiavo. Dopo il lavoro ritornavo stracco e sudato negli scantinati bui dove ci facevano dormire, quando decidevo di non ritirarmi subito, invece, con i vestiti del lavoro addosso e la camicia appiccicata per il sudore, andavo a camminare sul molo. In fuga dai turisti che affollavano il lungomare. Senza il sole, il mare sembrava una bestia nera, enorme, ringhiosa, che si nutriva d’ombra. Questo pensiero per un po’ calmava la rabbia e mi faceva sentire meno solo. La mattina che non lavoravo passeggiavo per il paese: da un lato si vedeva il molo e il mare che si spalancava a giorno illuminandosi di infinite iridescenze, dall’altra il marciapiede, dove tra gli interstizi della pietra emergevano gli scarti e le ferite delle città. Una scia di mozziconi ne accompagnava per lungo il perimetro e ancora bottiglie di plastica, brandelli di buste e di oggetti senza più identità. Quelli che si sedevano sulla panchina non ci facevano caso, guardavano il mare. Un giorno di festa, sul finire della stagione, abbandonando le solite rotte mi spinsi più a sud lungo la costa. A piedi, col sudore che mi bagnava la fronte, attraversai una via lunga, percorsa da macchine a tutta velocità. Giunto a pochi metri dalla spiaggia cercai inutilmente di raggiungere il mare. Centinaia e centinaia di metri costieri erano inaccessibili perché chiusi da cancelli di abitazioni abusive, ville, villini, villette, nate dalla speculazione edilizia. Chiesi a una signora che comprava della frutta da un venditore ambulante come raggiungere il mare e lei: «Il mare?»
«
Eh!?»
«Ci vuole la chiave.»
«
La chiave? Per andare al mare?»
«Come no.»
Io non volevo credere che aveva detto così e invece era vero. Allora questa signora vedendomi perplesso disse che andava a prenderla. Nel vicolo di un caseggiato chiuso da un portone, si vedeva uno sprazzo di cielo, un attimo dopo una bambina ipernutrita sfrecciò su un monopattino argentato lungo il viottolo, coprendomi del tutto la visuale. Poco dopo la signora tornò con le chiavi e aprendo il cancellino lasciò che raggiungessi il mare.

L’acqua era scura, melmosa, praticamente immota. Famiglie di bagnanti, disseminate sull’arenile, oziavano sotto ombrelloni variopinti. Toglievano da involti di stagnola o da contenitori di plastica brandelli di cibo. Altri adagiati su sdraie e segghioline pieghevoli fissavano torvi chiunque passasse. La spiaggia in prossimità dei cancelli delle ville era completamente deturpata, aggredita com’era da cespugli e pruni pungenti, cresciuti da tutte le parti. L’arenile stava scomparendo. Camminando un po’ sulla riva mi fermai in uno spazio lasciato libero dalle famiglie e posai l’asciugamano. A mare un gruppo di ragazzini stava facendo un casino urlando, ridendo e offendendosi. Uno di loro uscì dall’acqua, prese due legni robusti e facendosi aiutare dagli altri, li conficcò sul fondale per fare le porte. Quando mi alzai per allontanarmi: «Finalmente!» Urlarono, io non mi voltai.
«
Finalmente!» Ripetè a volume più alto il più grosso della compagnia. Camminai fino a lasciare la spiaggia, proseguendo sulla strada asfaltata, dove le macchine sfrecciavano. Il passaggio pedonale era completamente invaso dalle auto parcheggiate e più volte rischiai di essere investito. In serata raggiunsi il paese e dimenticando il luccichio del lungomare entrai nel rione popolare. Scheletri di motorini stavano addossati ai porticati, scritte cancellate e riscritte ovunque sui muri crepati. Nella corte di un palazzo i colori morenti mi caddero addosso, vidi una donna camminare su una terrazza, i nostri occhi per un attimo si incrociarono, nel suo sguardo lessi una resa avvilente.

(continua…)

©Alessandro Angeli

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