Palermo è un pesce morto [4] di Alessandro Angeli

4.

Anche la poetessa abitava qui. Nonostante con le parole avesse cercato di snidare l’oltre, si era arresa al richiamo dei quartieri scomparsi. Una volta sopra una bancarella avevo trovato un suo libro, lo avevo comprato e letto: le sue poesie parlavano della terra e del mare, parlavano di uno sconfinamento. Il giorno che andai a consegnarle l’elenco in Italia era ora di cena. C’era ancora l’estate e la scia di un aereo lambiva le case. Un anziano era fermo all’imbocco della strada e guardava le macchine passare. Sembrava fosse sul punto di partire e invece restava fermo, gli occhi lontani, sulla linea di un dare precedenza infinito. Poco più avanti, addossata agli sgabuzzini, c’era sua moglie, seduta su una seggiola di vimini. Le chiesi dov’era la via che stavo cercando: «Sta là dritta» disse con un tremito «se non la trova chieda a mio marito, è quello là».

«Grazie» dissi e mi allontanai ingoiato dall’onda d’asfalto. Quando arrivai nel porticato della poetessa, altri anziani si godevano taciturni il fresco. Suonai e una vocina chiese: «Chi è?» La poetessa minuta, esitante, mostrò per tre quarti il viso dietro lo stipite. Estrassi l’elenco del telefono dalla borsa e annuì. Avrei voluto dirle che avevo letto le sue poesie e chiederle perché si fosse arresa, perché avesse smesso di cercare. Poi mi venne in mente che forse quest’oltre di cui parlo nemmeno esiste, è soltanto un’idea come tante, uno strato di panna montata che si posa sul cuore di chi è giovane come me, sciogliendosi presto rimane la vita brutale, e nient’altro. Mentre lasciavo i quartieri scomparsi immaginai la scena di un film. Io e la poetessa viaggiavamo in macchina per le strade della Sicilia; io tenevo la barba lunga e lo sguardo acceso da una rabbia febbrile, mentre lei indossava degli occhiali dalla montatura colorata, sopra le lenti due piccoli ali d’uccello, aveva un sorriso strafottente sulle labbra e guardava fisso davanti a sé senza distrarsi mai.

All’epoca pensavo ancora che la mia vita avesse la forza del mare. Mangiavo a fatica: due pesche, un’albicocca. Un giorno di scirocco con le onde grosse e scure decisi di misurare la sua forza. Mi tuffai sui cavalloni; riemergevo solo quando non ce la facevo più e rischiavo di annegare. Era un giorno dei tanti, non era successo niente fino allora, i bagnini commentavano i culi delle donne che passavano sulla battigia. Intanto il vento increspava l’acqua e le onde montavano. Mi ci tuffavo in mezzo senza prendere fiato, quando all’improvviso vidi una turista entrare in acqua. Aveva capelli castani e la pelle biancastra, era alta, camminò fino a che fummo vicini, solo allora mi accorsi che portava l’apparecchio ai denti. Si tuffava e riemergeva lentamente come me. Mi lasciavo trasportare dalla marea, speravo che mi portasse da lei. Anche la ragazza sembrava abbandonarsi alla forza del mare. Riemersi un’ultima volta con il gonfiore che riempiva il costume, lei mi guardò con la coda dell’occhio e si tuffò un’ultima volta. Quando riemerse si allontanò trottando sulla secca verso la riva. Mentre mi asciugavo la vidi sotto l’ombrellone che mi guardava e con la spazzola allisciava i capelli.

© Alessandro Angeli, 2018

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