Palermo è un pesce morto [2] di Alessandro Angeli

2.

 

«La figura è idda, non sta nello specchio che la riflette», disse tutto incantato, indicando col mignolo unghiuto il tavolino lucido accanto a lui. Mio zio Giovanni si divertiva a confonderci con i suoi rompicapi e noi ce lo dovevamo assuppare. Se ne approfittava perché come falegname in Inghilterra aveva fatto picciuli e non ci veniva praticamente mai quaggiù, se non per farci vedere la sua macchina di merda e abbagnarci a tutti quanti. Nel piccolo soggiorno lucido ce lo guardavamo costernati, zitti zitti, poi mia madre si alzava per preparare il caffè, e così, almeno lei si salvava.
«E se sfasci lo specchio che succede Zio? Porta scalogna… per caso?
» Mettevo lì per ridere.
«Che c’entra la scalogna picciò, quella è roba pì i baciapili… è proprio iddo… se sconocchi lo specchio, tieni il tavolino.
»
«
E chi sono i baciapile zio?»
Approfittavo del tempo che impiegava a spostare la testa a destra e a manca, per attirare su di sé quella poca attenzione rimasta, come faceva sempre prima di rispondere e me la svignavo. Quando con gli occhi mi teneva troppo sottotiro, invece, ero costretto a inventarmi una scusa qualunque, gli dicevo che Tore e Salvo erano abbasso che mi aspettavano: «Vero è Zio, devo proprio andare!» Lui allora mi guardava come a dire, fa come ti pare, e indispettito come una scimmia volgeva lo sguardo.

Per un po’ di tempo non vedemmo più Tore, pensavamo fosse finito a fare il manovale nel cantiere di suo cugino Ignazio, a Bagheria. Poi un giorno al campetto dei salesiani, mentre qualcuno mi passava la palla in mezzo alla puzzolana, ricomparve, e io lo vidi. Tanto che il Menno, (u chiattuni) per la prima volta in vita sua me la sfilò dal piede la palla, senza che me ne accorgessi. Era insieme ad altri tasci più grandi di lui, uno indossava una giacca blu elegante e ci cadeva dentro. La cosa che più mi sorprese, però, era che Tore non aveva scavalcato il muretto di cinta come facevamo tutti, ma era passato direttamente dall’ingresso principale, come facevano i preti. Guardavo Tore fumare al bordo del campo sportivo, faceva il boss! E quando Salvo con ancora il fiatone per la corsa gli si avvicinò per chiedergli una sigaretta:
«Accattatele!
» gli rispose, lanciandogli il pacchetto di Marlboro sulla puzzolana e si allontanò con le mani in tasca, senza nemmeno musarlo. Poi tutti e tre erano entrati in campo senza che nessuno glielo avesse chiesto e correndo e babbiando ci avevano rubato il pallone e rovinato del tutto la partita.

Ogni giorno Tore e gli altri avvicinavano i ragazzi più piccoli, se li lisciavano distribuendo dolcetti e sigarette, li riunivano in capannelli con Tore che girava intorno. I preti da lontano lo guardavano e non dicevano niente.

Da solo raggiungevo il boschetto fuori dal campo sportivo e appoggiando la mano al tronco di un albero rimanevo per lunghi minuti a guardarla. Fissavo la mia mano e poi la corteccia, aspettavo che le dita divenissero legno, perché volevo diventare anch’io un albero e vivere per sempre.

©Alessandro Angeli, 2018

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