Non tiene nemmeno gli orecchini quando lavora. Resta nuda. 

La maggior parte delle volte non ha nemmeno la testa. È una cosa che le piace moltissimo. Si riconosce in mille angolature: le clavicole sporgenti, le braccia magre, lo sterno prominente.  Quasi nessuno disegna il volto e chi lo fa accenna solo la forma del capo o tratteggia dettagli della fronte, degli zigomi o il lieve incresparsi delle labbra. L’identità non interessa. In fondo questo è un corso di disegno anatomico. Lei è solo un corpo qui. Una copia dal vero. Nient’altro.

Si specchia negli schizzi che ricoprono le pareti, si riconosce più tonica e armoniosa in quelli di pochi anni fa. Sta invecchiando. Dei mille lavoretti che ha fatto e che fa, questo è quello che preferisce. Ricorda l’imbarazzo della prima volta. Non si era mai spogliata per nessuno, nemmeno davanti al suo ragazzo di allora. Non era da lei. Però pagavano bene: diecimila lire all’ora per non far nulla e stare ferma.  

«Niente biancheria intima» aveva precisato il professore la prima volta «È un problema?». 

Un pochino lo era quel giorno, col Tampax di mezzo. Rispose no, mentre gli occhi dicevano sì. Così aveva passato le successive quattro ore reclinata su una tavola coperta da un drappo di velluto porpora con le gambe chiuse a tenaglia, trattenendo il fiato, sperando di non mischiare il suo rosso a quello del velluto.

«Gran bei malleoli» aveva detto alla fine il professore. Era corsa in bagno.

Le piace posare: ci va ogni mercoledì pomeriggio dopo i turni in cassa al supermercato, dopo quelli del call-center e fra una pulizia scale e l’altra. All’inizio certi sguardi la imbarazzavano: li sentiva addosso quell’attimo in più, appiccicosi, insistenti. Li lasciava scivolare via. Le piace essere solo un oggetto, non avere pensieri. È nuda, ma sparisce. La sua specialità.

Di sbieco osserva sempre qualche lavoro: resta incantata da quelli che sfondano la barriera della pelle e raffigurano anche i tendini, le fasce muscolari, le ossa: le orbite dissepolte degli occhi – i suoi – i denti infilati come proiettili nella mandibola. Pensa ai disegni di Leonardo; lui che con furore ha scavato nei corpi, per amore della scienza, e della conoscenza per vedere, capire, indifferente al tanfo della morte e al disfarsi delle membra. Chissà se incidendola avrebbe trovato e poi disegnato quella mancanza di abbracci, quel sentirsi invisibile che ha sempre addosso. Capita se sei figlia di uno sbaglio, di una mamma bambina e di un amore avvizzito sul nascere.

Sua madre se n’era andata, aveva continuato la sua vita altrove. Lei è cresciuta con i nonni, da cui ha imparato a mangiare la verdura, a dire “grazie e scusa”, a lavarsi spesso le mani, a guardare la Signora Fletcher dopo pranzo. È imbattibile a burraco, perché sa giocare come i vecchi, con pazienza e strategia. Dai nonni ha imparato un amore della taglia sbagliata che le va spesso stretto, altre volte troppo largo. Sa che i nonni avrebbero amato qualsiasi altro nipote. Lei resta una che non è stata voluta, una che non è riuscita a meritarsi nemmeno l’amore di chi l’ha messa al mondo. Non ha mai detto mamma. L’ha incontrata di tanto in tanto, come una zia lontanissima che non ricordi nemmeno di avere e che sbaglia i regali per il tuo compleanno.

«Non ti piace la Barbie California che ti ho portato?» le aveva chiesto due mesi dopo aver compiuto otto anni.

 «Un po’» aveva risposto lei, che desiderava tanto Gira la Moda o il Dolce Forno o qualsiasi altro gioco in cui ci fosse da fare, costruire e sporcarsi le mani. Le bambole le odiava per la loro immobilità. Barbie California finì nuda e rasata, nella cuccia di Timba V il pastore tedesco dei nonni.
Ora quella zia ha avuto persino altri figli. Lei la parola “fratelli” non la dice e non la pensa nemmeno. Un’altra cosa che non ha imparato. Lei è solo la nipote di qualcuno, la figlia di nessuno. Di suo padre neanche una parola. Potrebbe essere figlia di chiunque.

Fissa il professor Malleolo che ora la paga in euro. No! Lui non può essere suo padre, non c’è nessuna somiglianza. «È l’ultima volta che ci vediamo. La prossima volta ci sarà il professor Perri al mio posto, vado in pensione dopo quarantadue anni di disegni». Sorride. Risponde: «Complimenti!» impacciata, pensando che questo è il discorso più lungo fatto in cinque anni e che. Per fortuna.

Resta aggrappata a questo appuntamento settimanale, mentre cambia lavori e amori come gli abiti che si leva per posare. Le matite dei ragazzi la definiscono, le linee che delimitano il suo corpo sembrano mettere un confine al vuoto che ha dentro. Ma non basta. Si è lasciata anche con Pier, che la amava davvero, per mettersi con uno che ha vent’anni più di lei, con più soldi che sentimenti e di sicuro più macchine in garage. Lei uno come Pier non se lo merita. L’amore la spaventa, il baratto lo conosce: è come posare. Il suo corpo in cambio di qualcos’altro. Intanto il cuore muore.

Questo mercoledì la sala pose è diversa.  Il nuovo professore ha voluto così.  Lei fissa il bianco delle pareti ritinteggiate di nuovo, da cui sono stati tolti i vecchi disegni. Sente la pelle bruciare e non sa perché. Si spoglia, ma ha i brividi, forse le è venuta la febbre.

Il nuovo professore è giovane e gentile: «Piacere, mi chiamo Roberto Perri» le dice stringendole la mano. Ha una stretta energica, la pelle calda contro la sua gelida.
«Le dispiace se oggi la faccio avvolgere in un lenzuolo? Vorrei che i ragazzi indovinassero le forme del corpo dal drappeggio». No, non le dispiace.

Il professor Perri è diverso da Malleolo: ha messo della musica mentre i ragazzi lavorano, canzoni inglesi che lei non conosce e brani di musica classica. Fa osservazioni ad alta voce, ma soprattutto disegna con loro.
«Considerate sempre l’energia che emana da ciò che state rappresentando. Anche se si tratta di oggetti cercate sempre la loro anima».

La lezione è finita, le quattro ore sono passate veloci. Lei è stanchissima. Dev’essere davvero la febbre. Si riveste piano dietro al paravento, nell’aula tornata vuota e silenziosa. Non lo è. Il professor Perri è ancora lì, con un foglio in mano.
«Mi devo scusare. Non le ho nemmeno chiesto come si chiama».
«Lisa» risponde lei arrossendo.
«Lisa, le ho fatto questo per farmi perdonare…» dice porgendole il foglio. «Ti ho fatto questo… Potevo? Darti del tu intendo».
Sì, poteva. Ridono di quell’incertezza

Lisa osserva il disegno, arrossisce di nuovo. 

«È bellissimo. È la prima volta che qualcuno mi fa un ritratto…».
«Non ci credo, è peccato mortale!»
«Ho una faccia qualsiasi…»
«E come sarebbe una faccia qualsiasi, scusa?»
«Come la mia, credo…»
«Si tratta di un grave caso di cecità. Ma ti sei vista? Hai uno sguardo che manderebbe in terapia la Ragazza dall’orecchino di perla e se sorridi pure Monnalisa»  
Lei si tocca i lobi nudi, sente le guance in fiamme.
«E quello straccialo, è solo uno schizzo. Quando vorrai te ne faccio uno vero, con la luce giusta e tutto. Con gli orecchini persino!»
Lisa sorride. Non vuole stracciare niente.

Per la prima volta si sente nuda.

Davvero.

© Anna Martinenghi, 2021

Anna Martinenghi

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