Non sapevo che passavi [6] di Stefano Domenichini

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GIONA
(di profeti e di veleni)

Giona, che fu indigesto alla balena, che riuscì a redimere la teppaglia di Ninive, che litigò con Dio, era morto da bambino.
A sei anni, orfano di padre, si ammalò e non ci fu niente da fare. A Elia, il padre di tutti i profeti, l’uomo che pregando riusciva ad accendere una pira di legna verde e bagnata, la cosa non dispiacque più di tanto. Quel bambino gli saltellava sempre intorno, deconcentrando la sua missione divina.
Era successo che Elia, dopo aver scannato i 450 sacerdoti di Baal, si era rifugiato sul Monte Oreb. Lì non c’era una gran vita. Mosè ci aveva soggiornato per quaranta giorni e quaranta notti, qualche secolo prima, ed era tornato indietro un po’ nervosetto. Come arrivò a valle con il souvenir dei dieci comandamenti, trovò tremila ebrei che facevano bagordi intorno a un vitello d’oro, e li fece massacrare.
L’unica compagnia di Elia erano un angelo che gli portava pasti regolari e Dio, che ogni tanto veniva a fare due chiacchiere. Non che Elia fosse un tipo inquieto, ma dopo un mesetto di passeggiate, e nonostante l’ottimo servizio del cherubino, si accorse di cominciare a pensare che i riti orgiastici di Baal non dovessero essere poi così male. Capì che era giunto il momento di ridiscendere.
Arrivò nel villaggio di Sarepta e la prima cosa che vide fu una giovane donna che, con la veste sollevata, pestava uva in un tino. Poiché a Elia le profezie scappavano facili, lì per lì gliene uscì una decisamente morbosa. E, si sa, Elia non sbagliava mai. Così si insediò a casa della donna, che era vedova e aveva un figlio di nome Giona.
Quando il piccolo Giona morì, Elia era piuttosto impegnato: stava trattando con l’Associazione Aviatori per divenirne il Santo Protettore (essendo profeta, il concetto di aviatore gli era chiarissimo), lui che già lo era dei Fulmini e dei Temporali. La vedova, sconvolta dal dolore, lo assillò perché tentasse di fare qualcosa. Elia, che sarebbe asceso al cielo senza trapassare, non si curava molto dell’evento morte, ma quando la vedova minacciò di applicare nei suoi confronti il metodo Lisistrata, distolse l’attenzione dai suoi affari e con un gesto altero e distratto resuscitò Giona.
Con sua grande sorpresa la cosa gli riuscì alla perfezione. Da quel momento Elia cominciò a provare verso quel bambino sentimenti contrastanti. Da un lato gli stava sempre e comunque pesantemente sulle scatole, dall’altro provava per Giona un’ammirata soggezione come se, guardandolo, si trovasse di fronte ai talenti che il popolo gli attribuiva e che lui non pensava di possedere. Decise così di insegnargli il mestiere.
Nel settecento avanti Cristo quello del Profeta era un mestiere adatto a giovani ambiziosi: si viaggiava, si faceva carriera in fretta e si acquisiva un certo potere. I rischi non mancavano, ma Giona era in piena onnipotenza giovanile e non ci faceva molto caso. Poco più che ventenne si mise in luce intervenendo in maniera determinante nella risoluzione di una questione geopolitica che stava mettendo a ferro e fuoco il medioriente. Che lì, tra Tigri ed Eufrate e zone limitrofe, la geopolitica è come il testosterone per i giamaicani: hanno gonadi operative sette giorni su sette che sparano fuori livelli di geopolitica non coagulabili, da tanti secoli, e per sempre, ormai.
Tra Assiri che percuotevano il cuneo fiscale e Aramei che bloccavano gli affari con Damasco, il re Geroboamo II decise che per il popolo di Israele era arrivato il momento di mettere un po’ d’ordine, il ché significava recapitare ad Assiri e Aramei una guerra santa senza prigionieri. Ora, si sa, per fare una cosa così occorre l’appoggio ampio dell’opinione pubblica. Fu allora che Giona ebbe la sua occasione, e la sfruttò alla grande: convinse tutti che l’iniziativa bellica era voluta da Dio e che Geroboamo II era, disse proprio così, l’Unto del Signore.
A sentire quell’espressione, Dio si scompisciò, ma il ragazzo gli piacque e decise di assoldarlo. Come prima missione lo spedì a Ninive. Ninive era un posticino dove la vita di un uomo valeva quanto un caco marcio: quando uno usciva di casa, salutava tutti per bene perché la probabilità che non rientrasse vivo era altissima. La criminalità era l’unica legge condivisa e lì davvero afferravi il senso prosaico dell’attimo fuggente o del “diman non v’è certezza”, per cui il tempo scorreva tra sangue e gozzovigli disperatamente sfrenati.
Ricevuto l’ordine divino, a Giona prese una crisi di panico e disse a Dio: «Senti, grazie davvero per la fiducia, ma come primo incarico avevo pensato a qualcosa di più tranquillo, per farmi le ossa, tipo Cortina o Saint-Tropez. Anche come stagionale, mi accontento». Ma Dio non tratta, né accetta dimissioni. Così Giona tra Ninive e la fuga trovò quest’ultima più affascinante che disonorevole e si imbarcò su una nave che andava in direzione diametralmente opposta dalle coordinate della sua missione.
Dio, con tutti i profeti che aveva in giro per il mondo, non poteva permettersi insubordinazioni e piazzò sulla nave una tempesta micidiale, una specie di nuvola di Fantozzi che, mentre intorno la gente faceva pic-nic in spiaggia e prendeva bagni ristoratori, aveva portato l’imbarcazione sull’orlo dello sfascio. Quando i marinai scoprirono, con uno di quei giochini della sorte che andavano per la maggiore, che la colpa era del passeggero Giona, si trovarono difronte a un’alternativa: sfidare l’ira dei potenti senza abbassare il capo (scelta che avrebbe probabilmente portato a un sequel con effetti speciali) oppure prendere Giona e sbatterlo in mare aperto.
Fu così che Giona si trovò nella pancia della balena. Dopo tre giorni che stava lì tra sfiati e fanoni di cheratina, Dio lo chiamò e gli disse: «Allora Profeta, come la mettiamo con la missione?». Detto fatto, il cetaceo sputò Giona dritto dritto nella piazza centrale di Ninive. Qui successe una cosa incredibile che finì per portare il giovane, già molto stressato dalle ultime vicissitudini, sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Non fece neanche in tempo a sollevare il ditino profetico che l’intera popolazione, stimata allora in circa centoventimila anime, si era già messa a digiuno vestita di sacchi di tela grezza, ottenendo immediatamente il perdono di Dio.
La cosa mandò il giovane Giona su tutte le furie; si rivolse al Capo e disse: «Signore, ma io non ho fatto niente, questi hanno la faccia come il culo…pardon, fingono, è chiaro, e tu che fai, li perdoni?». Decise allora di piazzarsi a ridosso del centro abitato ad attendere gli eventi. Siccome stiamo parlando, più o meno, di quella che oggi è una zona desertica dell’Iraq, non è che lì sdraiato se la passasse benissimo e ogni tanto invocava la morte per mano di Dio.
Questi, invece, una mattina, gli fece trovare sopra la testa una bellissima pianta che nessuno aveva mai visto prima con grandi foglie palmate tendenti al rosso. Essendo una novità assoluta, appesa a un ramo c’era l’etichetta con caratteristiche e istruzioni. Giona lesse: Pianta di Ricino, inventata da Dio. La spiegazione non era inutile, perché tra creazione e invenzione c’è una bella differenza. Dio ha creato il mondo, ma poi man mano si è inventato degli accessori che all’inizio non gli erano venuti in mente. Come il calcio di punizione, il motore a scoppio, la bomba atomica, ad esempio. Anche la pianta di ricino all’inizio non c’era.
Giona provò un grande sollievo, vuoi per l’ombra, vuoi per il segnale di conforto divino e passò una giornata da gran signore. La mattina dopo, puff…la pianta non c’era più. La sopportazione nervosa di Giona aveva ormai la stessa reattività di una mosca che attraversa gli Urali a gennaio e il giovane profeta si mise a dare testate contro il tronco sparito, riuscendo anche a provare dolore.
Allora Dio, che quando c’è da far la morale non guarda in faccia a niente, neanche a un uomo disperato, gli fece su una menata clamorosa sul fatto che lui, Giona, si dava pena per una pianta che non aveva coltivato e non gli apparteneva e poi inorridiva se la pietà di Dio si rivolgeva verso i cittadini di Ninive che, disse testualmente, non distinguevano la destra dalla sinistra.
A quel punto lì, Giona non ce la fece più e dopo un breve attimo in cui rimpianse di non aver fatto ragioneria, cadde in ginocchio, colto da incommensurabile stanchezza, e poiché la sua fede era ormai fertile come il paesaggio che lo circondava, implorò Dio con una sola parola: «Uccidimi».
E siccome di Dio si può dire tutto, ma non che non sia immensamente buono, lo accontentò subito: rimise al suo posto la pianta di ricino, questa volta però con dei semi dall’aspetto particolarmente appetitoso. Giona se ne mise in bocca una manciata e morì tra atroci sofferenze. Perché i semi della pianta di ricino, nella nuova e definitiva versione, contenevano una sostanza, la ricina, altamente tossica e velenosa.
Così, mentre i marinai erano giunti alle foci del Guadalquivir e la balena aveva ripreso la sua dieta di calamari, Giona si ritrovò di fronte Elia, nel frattempo asceso al cielo in un turbine di vento e fuoco, che scosse i riccioli profetici e disse: «L’avevo detto a tua madre che era tutto inutile».

© Stefano Domenichini, 2016

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