Non sapevo che passavi [2] di Stefano Domenichini

Extending gloved hands skyward in racial protest, U.S. athletes Tommie Smith, center, and John Carlos stare downward during the playing of the Star Spangled Banner after Smith received the gold and Carlos the bronze for the 200 meter run at the Summer Olympic Games in Mexico City on Oct. 16, 1968. Australian silver medalist Peter Norman is at left. (AP Photo/files)
Extending gloved hands skyward in racial protest, U.S. athletes Tommie Smith, center, and John Carlos stare downward during the playing of the Star Spangled Banner after Smith received the gold and Carlos the bronze for the 200 meter run at the Summer Olympic Games in Mexico City on Oct. 16, 1968. Australian silver medalist Peter Norman is at left. (AP Photo/files)

PETER NORMAN
(velocista)

I ribelli fanno vendere. Magliette, poster, tazze. È la cultura pop. Andy Wharol metta pure su quella sua aria imperturbabile e sdegnata, ma il punto è un altro.
Prendete da parte il primo eversivo da birretta con sul petto il Che guarnito dai riccioli della victoria e chiedetegli: se sapessi che per aver indossato quella maglietta ti portano via tutto, a partire dai soldi fino a cose più impalpabili, come il futuro, tu che faresti? Si alzerebbe una brezza disciplinata e, scommettiamo, senza neanche appoggiare la birretta il tipo si è già coperto di popeline celeste e blazer blu.
Peter Norman fece l’esatto contrario. Ai cento metri era sesto. Bianco, vestito di bianco. Al sicuro. Peter Norman era cattolico, adepto dell’Esercito della Salvezza. Il suo Dio gli diceva di stare lì, non mettersi in mezzo. Aveva fatto 20.22 in semifinale, un tempo pazzesco per un bianco australiano. Il futuro era suo. Quella finale dei 200 metri uomini delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, la prima sul tartan, la prima in altura, non la riguarda mai nessuno. All’uscita dalla curva, Peter Norman ha uno scatto dissennato. Non è solo atletica. È Aiace alle Porte Scee. Il suo destino è lì. Chiude in 20.06 (48 anni dopo è ancora il record australiano), secondo, in mezzo a due neri. Chissà che odore, dicono gli australiani estasiati davanti alla televisione. Nel ’68 in Australia l’apartheid non ha nulla da invidiare a quello sudafricano.
Con 20.06, quattro anni dopo, a Monaco, Peter Norman avrebbe fatto a spallate con Borzov. Ma non lo convocarono neppure (pur essendo sceso tredici volte sotto il tempo di qualificazione). Eppure era australiano, bianco e membro dell’Esercito della Salvezza. E’ come oggi avere l’erre moscia, vivere a Milano e appartenere a Comunione e Liberazione: puoi anche avere i neuroni che brancolano a mosca cieca, ma il futuro è assicurato.
Peter Norman, invece, indossò la spilla. Sulla tuta verde della nazionale mise una spilla e andò, nelle sue Adidas bianche, verso il podio. Il Dio dell’Esercito della Salvezza era intervenuto ancora per cercare di fermarlo, per farlo rientrare nei ranghi di una vita di successo.
Quando Peter Norman chiese la spilla ai due neri, quello che aveva vinto con il nuovo record del mondo, guardò l’altro e disse “che cazzo vuole questo, si prenda la sua medaglia e torni a casa”. Anche i ribelli hanno un senso elitario: la lotta è una lotta loro, non vogliono intrusi.
Era stato Jesse Owens a convincere Peter Norman. Il pluri-campione di Berlino ’36 era entrato nello spogliatoio mentre i tre si stavano preparando per la premiazione. Lo aveva mandato Avery Brundage, Presidente del CIO, dichiaratamente nazista. I due neri avevano deciso di fare a meno delle scarpe (simbolo di ricchezza) e stavano infilandosi dei calzettoni alti e neri. Uno dei due aveva indossato una collanina di piccole pietre (ogni pietra era un nero linciato per essersi battuto contro la discriminazione). Quando entrò Jesse Owens, stavano discutendo su un paio di guanti, che dovevano essere due le paia di guanti, una a testa, ma avevano svuotato e risvuotato la borsa e sembrava proprio che quello arrivato terzo si fosse scordato di portarli con sé. Un bel casino, diceva il vincitore con voce alterata.
Anche Jesse Owens parlò di casino, di quello che si sarebbe scatenato se avessero davvero inscenato quella pagliacciata; diceva cose così: che i calzettoni alti danneggiano la circolazione. Brundage, il nazista, aveva mandato Jesse Owens a trattare. Peter Norman se ne stava nel suo angolo, armeggiava con i lacci delle scarpe, ogni tanto sollevava quella sua faccia da bravo studente che si sposa presto e dà lustro alla comunità. Si ricordò di Jesse Owens, di cosa fece dopo Berlino. Lo aveva amato troppo per andare a fondo di quel disturbo che sentiva quando lo vedeva nei telegiornali, per trovare la parola che descrivesse quel disagio. Ma lì, mentre Jesse Owens si improvvisava sofista del destino, la parola gli venne: ammaestrato. Lo rivide correre contro i cavalli, animale da circo, come Buffalo Bill e Geronimo da vecchi.
Allora Peter Norman chiese la spilla.
Allora il vincitore – infiammato dall’adrenalina e adirato per la situazione – chiese che cazzo volesse quel bianco. Non ne avevano spille per lui, non avevano neanche abbastanza guanti.
Peter Norman guardò negli occhi il vincitore e disse: “mettetene uno a testa, di guanto”.
Jesse Owens si girò e, scuotendo la testa, trascinò il suo spreco fuori dallo spogliatoio che si rianimò. Bob Beamon, Dio nero del salto in lungo, aveva ascoltato tutto uscendo dalla doccia e disse una di quelle cose che, se avesse avuto delle proprietà, avrebbero ammazzato anche Spartaco: “Vi porteranno via tutto, anche la casa”, disse Beamon. Nessuno gli rispose “che ci vuoi fare, verremo da te”. Non era il momento.
Mancava l’ultimo ostacolo, l’ultimo intoppo mandato dal Dio della Salvezza per sottrarre Peter Norman alla sua rovina: la spilla. Saltò fuori dal nulla, come il 20.06, come Jesse Owens sconfitto, come l’idea del guanto. Altrimenti non si spiega cosa ci facesse in quello spogliatoio Paul Hoffman, membro della nazionale americana di canottaggio. Lui era bianco e aveva la spilla. La diede a Peter Norman. Per questo, fu allontanato dalla nazionale e accusato di cospirazione.
Il resto è tutto in una foto diventata poster per le coscienze, nemesi adolescenziale in attesa del primo stipendio: due neri sul podio con il pugno alzato e davanti un bianco che fu l’unico a non vedere nulla: il secondo sfila per primo e, durante l’inno, Peter Norman non si girò mai.
Dopo quella sera, la cosa più simpatica che è successa a Peter Norman nei trentotto anni che gli restarono da vivere è stata di trovare, tutte le mattine, davanti a casa, dei sacchi pieni di escrementi (perché i benpensanti sanno essere raffinati, soprattutto se griffati dall’anonimato). Dalla colazione in poi, le sue giornate le ha passate da reietto, senza lavoro, con la famiglia screditata. Doveva chiedere scusa, gli dicevano. Ma lui non lo fece. Mai.
Proprio qui sta il punto. Non è una questione di principio, ma di soldi. Peter Norman era a un passo dalla fama con quello che ne consegue e, per indossare una spilla, rinunciò a tutto, per tutta la vita. Una spilla su cui non c’erano scritte cose tipo: “Brundage è un nazista” o “America chiedi scusa per My Lay” o, al limite “Città del Messico non ci è piaciuta, clima troppo secco”. Era una spilla bianca con due corone di alloro e, nel mezzo, la scritta: “Progetto Olimpico per i Diritti Umani”.
Ecco cosa ha fatto Peter Norman, ha indossato quella spilla lì, e ha pagato le conseguenze, fino alla fine. Statisticamente, se oggi si facesse un sondaggio, diciamo che i due terzi della popolazione mondiale direbbero che è stato un cretino. Per gli altri, gli indignati da spritz, un’ultima avvertenza: non cercate sul web, nessuno ha mai fatto una maglietta con la faccia di Peter Norman.

© Stefano Domenichini, 2016

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *