No fake [2]

DI LIMONI E IGNORANTI
La vera storia di McArthur Weeler (e non solo)

È il 1995 e siamo a Pittsburgh, Pennsylvania. Nel salotto c’è aria pesante. McArthur Weeler non riesce a smettere di fumare, emozionato ed eccitato perché la sua vita ha avuto finalmente la svolta che aspettava da sempre. Di tanto in tanto getta lo sguardo sul borsone all’angolo della stanza, passa una mano sui capelli e scoppia in una risata incontrollata.

È il 1995 e siamo a Pittsburgh, Pennsylvania. Quando in una stanza c’è aria pesante, il minimo spiffero che viene da fuori lo riconosci subito. Riesce a darti un brivido di freddo, una specie di respiro improvviso che ti illude di essere all’aperto. Se poi viene da una porta abbattuta con un ariete dalla polizia, allora è facile che riesca a immaginarti una vera folata d’alta montagna.

È il 1995 e siamo a Pittsburgh, Pennsylvania. McArthur Weeler è seduto di fronte al poliziotto buono e a quello cattivo. Entrambi gli contestano due rapine a mano armata. McArthur fa finta di niente, nega, fino a quando uno dei due non gli mostra le riprese video degli istituti bancari. McArthur Weeler viene immortalato in tutta la sua stazza, a volto scoperto, mentre punta una pistola alle commesse e svuota le casse.

È il 1995 e siamo a Pittsburgh, Pennsylvania. McArthur Weeler non riesce a capacitarsi di come abbiano fatto a scoprirlo. Con un candore che fa diventare buono anche il poliziotto cattivo, confessa di aver rapinato le banche convinto di essere invisibile. Un amico, poco tempo prima, gli ha mostrato come, scrivendo su un foglio alcune parole utilizzando del succo di limone, la scritta rimanga invisibile fin quando non sia prossima a una fonte di calore.

È il 1995 e siamo a Pittsburgh, Pennsylvania, dove un uomo si è cosparso il volto di succo di limone che poi gli è finito negli occhi. Forse proprio perché accecato e lacrimante non si è accorto che la polaroid che si è scattato per verificare la propria invisibilità inquadra il soffitto. Agli agenti confessa tutto il suo disappunto per non aver considerato che in quelle banche potesse fare così caldo. L’unica pecca di un piano infallibile.

È il 1996 e siamo alla Cornell University a Ithaca, New York. La storia di McArthur Weeler stuzzica la curiosità dei ricercatori David Dunning e Justin Kruger. Entrambi pensano che McArthur fosse troppo stupido per comprendere la propria stupidità, così chiedono ad alcune persone, partecipanti a un esperimento sociale, quanto si ritengano competenti in tre aree differenti: grammatica, logica e umorismo. In un secondo momento, a tutti vengono proposti dei test sulle medesime aree. I risultati sono sconcertanti: quelli che si sono ritenuti i più competenti raggiungono il punteggio più basso, mentre quelli che si sono sottostimati totalizzano i punteggi migliori.

È il 1999 e siamo alla Cornell University a Ithaca, New York. Un articolo a firma David Dunning e Justin Kruger teorizza una delle riflessioni più importanti di quello che sarà poi chiamato effetto Dunning-Kruger: lo studio sull’ignoranza del sé. Per ogni competenza, esistono persone molto esperte, mediamente esperte, poco esperte e pochissimo esperte. Queste ultime hanno una scarsa consapevolezza della loro incompetenza. Fanno errori su errori, ma tendono comunque a credere di avere ragione. Convincerli del contrario, è difficilissimo.

Siamo tra il 399 e il 388 a.C. ad Atene, Grecia antica. Platone, nella sua Apologia di Socrate, scrive un passaggio del discorso che questi tenne durante il suo celebre processo: «Allora capii», dice Socrate, «che veramente io ero il più sapiente, perché ero l’unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante.»

È il 2018 e penso a Socrate, al suo processo e a quello di McArthur Weeler. Poi scorro alcuni post su Facebook, sfoglio le pagine di un giornale, sintonizzo un notiziario in Tv. Ho un mal di stomaco sempre più insistente. Prenderò un po’ di acqua e limone. Dicono che il limone sia miracoloso.

© Alessandro Morbidelli, 2018

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