LE LETTERE CHE NON HO MAI SCRITTO [3] di Barbara Garlaschelli

Barbarina

 

Cara Barbarina,

tu sei l’unica a cui non abbia mai scritto nemmeno un biglietto d’auguri. D’altronde, chi scrive a se stessa? Una pazza? Una sognatrice? Una scrittrice?

Scrivo a quella bambina paffuta e dall’aria seria che mi guarda da una foto in bianco e nero, appesa alla parete. Una fotografia che ho sempre amato e che ho sempre tenuto vicino. Tempo fa ci ho disegnato sopra tre cuori: il più grande arancione, quello di mezzo rosso, il più piccolo blu. Nella foto ho uno di quei nastri elasticizzati che si usavano negli anni Sessanta che servivano a non far cadere i capelli davanti agli occhi. Indosso quello che potrebbe essere il grembiule dell’asilo. Non so chi mi abbia scattato quella foto. Papà, con molta probabilità. Non sorrido. Nelle foto da bambina non sorrido quasi mai, eppure dicono fossi una bambina allegra. Tranquilla ma allegra.

Nella foto hai incastrata negli occhi la malinconia che non ti abbandonerà mai. Perché se devo dare un ricordo di te da piccola direi che eri una bambina malinconica. Ridevi molto sì, insieme a tuo padre e tua madre. Ti piaceva stare con gli altri, adulti e bambini, ma avevi un mondo tuo già ben disegnato. Un mondo in cui accadevano storie. Un mondo in cui eri un’orfana abbandonata.

Leggendari i tuoi pianti dopo aver raccontato la storia in cui non avevi più né la mamma né il papà; e lo avevi fatto davanti a un Renzo e a una Franca allibiti, in mezzo alla sala ristorante di un albergo, a Bellaria. “Hai rischiato di farci arrestare per rapimento” ti prendeva in giro Renzo anni dopo. “Per fortuna il padrone dell’albergo ci conosceva…”. Epici anche gli ululati a metà del film Bambi (che non hai mai visto per intero nemmeno da adulta) nel cinema all’aperto a Riccione, con Renzo che, vergognandosi come un ladro, ti trascina lontano, la mano stretta nella tua, e tu che urli: “Perché è morta la sua mammaaaaaa”, in un trionfo di lacrime.

Sì, avevi questa mania di voler piangere. Le favole dovevano finire male; per te non esisteva “e vissero tutti felici e contenti”, ci doveva essere il morto e il tuo pianto catartico. Nessun lieto fine, come se avessi capito in anticipo dove stava la fregatura delle fiabe. E della vita. Chissà se è lì che nasce il germe del tuo essere scrittrice? Non fare la scrittrice, ma essere. Già allora non c’è distanza tra ciò che narravi e ciò che vivevi. Questo ti renderà un’affabulatrice irresistibile – dicono – ma anche una donna senza pelle che vive con aderenza spietata ciò che racconta – sia un evento di fantasia o un episodio accaduto nella realtà. Questo farà di te una scrittrice, ma il prezzo da pagare sarà altissimo: un dolore sottopelle costante. La capacità di essere altro da sé in una totalità disperante.

Ma torniamo a te, piccola. Sarai una figlia e una nipote molto amata, soprattutto dai nonni materni. Figlia unica, nipote unica. Non sarebbe dovuta andare così, ma la vita questo ha realizzato. Tutto l’amore concentrato su di te. Timida ed estroversa, vergognosa e ribelle, un miscuglio di opposti che troverai intatti nell’età adulta.

Ha ragione chi dice che tutto ciò che siamo lo si capisce quando si è piccoli. Per quanto si dia l’idea di essere nuovi, i nostri tratti salienti si formano quando siamo bambini e li viviamo ogni momento: con volti invecchiati, seppelliti sotto chili di carne e ossa; coi capelli ingrigiti, o calvi; con gli occhi che non vedono più bene. Noi siamo quei bambini lì.

Tu sei quella bambina lì: che era presa di mira dalle compagne più sveglie; che era cacciata fuori dai gruppi e se ne andava, lacrime agli occhi ma senza un lamento; che si ribellava con furia e faceva volar via una compagna d’asilo che per due anni le aveva dato il tormento; che correva piena di gioia incontro ai suoi genitori fuori dalla scuola il sabato per andare in campagna con gli zii; che imparava a nuotare sotto gli insegnamenti di nonno Luigi, tu, l’unico essere umano a cui quell’uomo mai amato abbia voluto bene.

Sei quella bambina nella foto, appoggiata al muro sbrecciato da cui spunta un tubo di ferro. Sei tutta in quegli occhi scuri, la linea che disegna una virgola in giù; la bocca a cuore; il naso piccolo (dov’è finito quel naso piccolo?); le orecchie piccine anche loro. I riccioli castani. I tuoi meravigliosi riccioli.

In quello sguardo c’è dentro tutto quello che vivrai negli a venire, il molto bello e il molto brutto. È uno sguardo che penetra il futuro con una purezza disarmante, quella che solo i bambini possiedono. Quella che teniamo ben nascosta da adulti. Che occultiamo con sapienza sotto tonnellate di ipocrisia e paura, vivendo nel terrore che qualcuno la scopra e ne faccia scempio, senza renderci conto che siamo noi stessi i primi a farlo.

La cosa che voglio per te, piccola, è prometterti che serberò con cura quella purezza, persino quando sembrerò che no.
Resta lì, intatta e misteriosa, seria e attenta.
Resta così, infinita in uno scatto.
Resta così, sempre.

Ciao Barbarina.

©Barbara Garlaschelli, 2018

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