Le antipatiche [16]

The delights of landscape, di Rene Magritte (1928)

 

NON CHIAMARMI JO

Non chiamarmi Jo. Te l’ho detto mille volte: non lo sopporto.
Non sono una piccola donna, io.
E non ricominciare: sorrido quanto voglio.
Ah, non lo sopporti.
Guarda che non ti prendo in giro, sono seria.
È finita, Vincenzo. Finita.
Non piangere. Non ci provare.
Ti è andato qualcosa negli occhi?
A me pare ci stia dentro tutto il lago. Guarda come sembra piccolo fuori dalla finestra.
I tuoi occhi invece…
Sai che detesto gli uomini piagnucolosi.
Dai, lo sapevamo fin dall’inizio che non poteva funzionare.
Sì, sì, sei pazzo di me. Lo so. Me l’hai ripetuto ogni cinque minuti negli ultimi due anni.
Certo che hai fatto cose che nessun altro mai, ma credimi, non basta.
È ora che guardiamo in faccia la realtà: non siamo fatti l’uno per l’altra.
Non sopporto questa vita, te l’ho detto mille volte.
Tu mi soffochi.
Cucina e camera da letto, camera da letto e cucina.
Passate le nove settimane e mezzo però si fa flanella.
Ammuffirò sul serio di questo passo e sai quanto sono delicata. Ho le mie esigenze.
Non mi guardare così, non mi squadrare dall’alto in basso! Conosco quello sguardo.
Solo perché mi hai portato via, credi di aver rubato il mio cuore. Patetico!
Mi stai mettendo in cattiva luce. In continuazione. È da criminali.
Se lui lo sapesse, ti mangerebbe il cuore ancora caldo.
Sì che lo amo ancora, come potrei dimenticarlo?
Sono ciò che sono grazie a lui e tu non puoi farci niente. Puoi nascondermi, tenermi segregata, chiudermi a chiave, ma il mio cuore è suo, i miei segreti sono suoi.
Tu sei così grezzo al confronto. Lui era geniale.
Come non valgono i confronti?
Non ti permettere di parlare di lui con quel tono. Sciacquati la bocca!
Hai solo da imparare: lui mi portava sempre con sé. Sempre. Era così premuroso.
Tu sei pazzo di me, prendi e te ne vai.
Ti scoccia eh, sentire la verità?
Che pezzo di bastardo sei.
Solo quello sai ribattere? Che lui è morto e sepolto?
Gran coraggio, complimenti.
Sì, lo so che è morto.
Se non fosse morto, non sarei certo qui.
Sono destinata a grandi cose, io. E lui lo sapeva bene.
Tu cosa mi offri? Un monolocale con angolo cottura.
Certo che non tocco niente.  Non scherziamo. Mi hai preso forse per la tua serva?
Puoi ben dirlo che sono snob. Scolpiscitelo in quella zucca di marmo.
Non girarmi le spalle ora. Non fare il cafone con me.
Senti Vincenzo, è fiato sprecato: sono mesi che ci sfiniamo con questi discorsi.
Sai che ti voglio bene, ma come amico, niente più.
Meriti una donna adatta a te, con gusti semplici, da non dividere con nessuno.
Io non sopporto i legami.
Ho amato solo lui, ora voglio sentirmi libera, trovare il posto che mi spetta nel mondo.
Essere ammirata.
Vincenzo, è il mio destino.
Sì, lo so che non capisci. Sono un enigma. Per tutti.
‘na stronza dici?
Dai, non sono cattiva. Mi disegnano così.
Fai ciò che devi, Vincenzo.
E per favore, smettila di chiamarmi Jo.

La notte fra domenica 20 e lunedì 21 agosto 1911, un ex impiegato del Louvre, Vincenzo Peruggia, originario di Dumenza nei pressi di Luino, sottrasse dal museo il quadro della Gioconda di Leonardo da Vinci. L’uomo rimase chiuso tutta la notte in uno sgabuzzino, poi uscì a piedi dal museo col quadro sotto al cappotto. Per quasi due anni tenne il dipinto in casa sua, nel suo paese d’origine a Luino, appeso in cucina o riposto in una valigia sotto il letto. Convinto che la Gioconda fosse stata sottratta durante le spoliazioni napoleoniche, l’aveva rubata con l’intenzione di restituirla all’Italia. Il ritratto invece era stato portato in Francia da Leonardo nel 1516. Leonardo tenne per sé il dipinto che rimaneggiò per anni,  fino alla sua morte. Il rocambolesco furto contribuì a far nascere il mito della Gioconda che a oggi resta il quadro più visto, ammirato e più pop del mondo. Vincenzo Peruggia definito “mentalmente minorato” fu condannato a una pena di un anno e quindici giorni di prigione, poi ridotti a sette mesi e quindici giorni.

Queste sono le parole (immaginarie) della fine del loro amore. E (forse) di molti altri.

© Anna Martinenghi, 2015

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