La Sviaggiatrice distratta [2] di Viviana Gabrini

foto di Viviana Gabrini
foto di Viviana Gabrini

LISBONA

Alle cinque del pomeriggio di un ottobre insolitamente caldo, i tavolini del Café Restaurante Martinho da Arcada sono quasi deserti e il cameriere passa veloce uno straccio sulle spalliere delle sedie che attendono clienti. Camicia bianca e papillon nero, l’uomo mi guarda senza vedermi ma quando gli rivolgo la parola, in un grammelot immaginifico che miscela italiano e spagnolo e tracce di francese, il suo viso si fa sorridente e lo sguardo gentile.
E’ qui il signor Pessoa? gli chiedo allungando all’insù gli angoli della bocca.
Ora no, dice lui sorridendo di rimando, ma è facile trovarlo qui alla sera…
A Lisbona sono venuta alla ricerca di fantasmi e nella memoria le pagine del Romanzo dell’Inquietudine si mescolano alla voce di Teresa Salgueiro e alle musiche dei Madredeus, filtrati dallo sguardo sognante di Wenders.
Stereotipi e inediti si sono mescolati, lasciando in bocca un sapore delizioso: Pessoa e Amalia, vinho tinto e ginginha, Wenders e Oliveira, Tabucchi e Andrade, bacalhau e pastelas, convincimenti e scoperte.
Ho camminato a lungo per i saliscendi di questa città che, come la vita, è tutta ripide salite e improvvise discese e danno all’andatura un ritmo giocoforza lento, che invita alla riflessione.
E in ogni via, dietro ogni angolo, ho cercato di scorgere la figura goffa e imponente del dottor Pereira, il Pereira del ritrovato orgoglio e amore di sé, si intende.
Perché vai ad Oporto? mi aveva chiesto qualcuno.
Per ritrovare la testa perduta di Damasceno Monteiro, avevo risposto io.
Non capì, ed io smisi di desiderare il suo corpo.
Cinque giorni non bastano a farti conoscere un popolo, ma a volte sono sufficienti per lasciarti il desiderio di saperne di più.
Occhi e capelli scuri, conquistati e conquistatori: i portoghesi sono sempre educati e gentili e sorridono con pazienza alla turista zuccona che fatica a capire e che dal cilindro della memoria riesuma una mescolanza di italiano, francese, spagnolo e perfino inglese, che cammina con il naso per aria e sobbalza sul 28 mentre i pensieri prendono una piega triste e i ricordi si fanno feroci.
Ripide salite e improvvise discese: le vie di Lisbona invitano a prendersi tempo: si sale e si scende, si cammina molto e si pensa altrettanto, senza fretta, fra un liberty cadente e una bottega che pare uscita da una cartolina di 50 anni fa.
I gesti si fanno morbidi, il passo diventa strascicato come la cadenza della lingua lusitana.
Basta però svoltare l’angolo e ci si ritrova nella modernità, mai sguaiata e aggressiva, ma quasi stemperata per non ferire i lineamenti di una vecchia signora che resiste alle tentazioni del bisturi e che per alleviare le rughe cala solo un po’ la veletta davanti agli occhi.

© Viviana Gabrini, 2016

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