La finestra [4] di Barbara Garlaschelli

foto di Gaia De Luca, tutti i diritti riservati

La mia città

Meglio sfogliare fotografie che guardare fuori ciò che resta. La mia città. La mia città una volta aveva le donne che quando arrivava maggio, il mese della Madonna, mettevano le sedie fuori dalle porte, in strada, e cominciavano a chiacchierare il pomeriggio presto e finivano quando i mariti tornavano dal lavoro. Noi bambini potevamo  stare fuori tutto il giorno, fino a che il cielo da azzurro non diventava color piombo e allora era tutto un “Giuàn”, “Renso”, “Carletto”, voci di madri che saturavano cortili e cielo. Giocavamo tutto il giorno, senza stancarci mai. Una banda di scalmanati, malvestiti e felici.

Eravamo sei, sette amici, sempre insieme. Prendevamo di mira i coniugi Ferrari perché ci rompevano le scatole e non volevano farci giocare, ci mandavano via dalle scale delle nostre case dove c’erano scivoli bellissimi, facevano la spia coi nostri genitori perché ci picchiassero.
Un giorno abbiamo aspettato che fossero tutti e due in casa e abbiamo legato con il fil di ferro i pomelli del portone di casa loro così non potevano più uscire. Erano senza telefono e noi li sentivamo chiamare a gran voce il portinaio e ridevamo ridevamo pur sapendo che la sera, sicuro come l’oro, le avremmo prese.

Sfoglio le foto e vedo la faccia del Lucio che tutti chiamavamo El Fil de fer*, perché era magro ma forte come il ferro e cerco di dimenticare le ore che abbiamo passato insieme, io e lui e gli altri. I Ferrari avevano raccolto dalle macerie dei bombardamenti i lavandini di granito quasi sani e li usavano come vasi da fiori, appoggiandoli sui pilastrini delle scale e piantandoci quelle piante che si chiamano spadoni. Orgogliosissimi  osservavano giorno dopo giorno le loro piante fiorire. Le curavano come fossero i figli che non avevano avuto. Le bagnavano tutte le mattine alle sei, prima che il sole diventasse rovente e poi passavano ogni tanto a guardarle con dei sorrisini compiaciuti. Una sera tardi, insieme a Fil de fer, glieli abbiamo tagliati alle radici, ripiantandoli. Dopo due giorni, nonostante le amorevoli cure della signora Ferrari, gli spadoni si piegavano su se stessi, come soldati feriti e, al termine di una breve agonia, morirono. Andavamo a guardarla di sera, la Ferrari, grassa e cattiva, mentre con aria disperata bagnava i suoi spadoni e diceva al marito: «Mi capisi no, staven in scì ben fin’a l’altrer…»**. E noi giù a ridere, nascosti dietro al muretto, impignati uno sull’altro.

Mi cade una foto: è una delle prime a colori che aveva scattato il Gino con la sua nuova macchina fotografica. Ritrae il balcone di casa mia, con i vasi di gerani appesi alla ringhiera del balcone. Erano l’orgoglio della mia mamma. E, soprattutto, nessuno di noi ha mai osato fare a quelle piante qualche scherzo. Erano i fiori di mia mamma. Li difendevo io.

Chissà dove sono ora, tutti.

(Racconto, in parte, scritto da mio padre Renzo, mentre, malato trascriveva  i suoi ricordi su un grande quaderno arancione)

@Barbara e Renzo Garlaschelli, 2015

* Filo di ferro
**Non capisco, stavano così bene fino all’altro giorno

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