La cuoca di Luana Troncanetti

Nunzia scruta gli occhi azzurri di sua figlia, le sopracciglia sottili e i capelli luminosi da straniera in quella scura terra murata.
La ragazza le riconsegna lo sguardo senza una parola.
Si fissano, il vento rincorre le nuvole e quelle si sciolgono rapide nel blu per non farsi acchiappare.
A dirle che era femmina è stata la levatrice del paese, quella lunga notte di maggio in cui Benedetta ha squarciato le sue robuste cosce da contadina. A occhi chiusi, con i denti conficcati nelle labbra per non urlare, e una preghiera muta alla Madonna che la guardava partorire poco sopra la testiera del letto. La piccola esplodeva nel suo grembo, un fiore biondo che si ribellava a pugni e calci. È spuntato fuori sporcando l’alba di grida e le lenzuola di rosso.
«Una femmina, peccato…» ha mormorato la levatrice asciugandosi la fronte come se quella notte fosse già agosto. Invece, nell’aria era appena comparso il profumo delle zagare.
«La voglio vedere» ha sfiatato Nunzia prima di perdere di nuovo il respiro. Un dolore brutale nel ventre, il secondo parto della placenta.
«Tira fuori quello che devi. Poi la vedi!» gli ordini secchi della mammana, che quella mattina aveva raccolto segala per i campi; un’erba che uccide gli embrioni fra dolori atroci, gli stessi che servono per nascere. Il rimedio per i figli sbagliati: quelli degli stupri dei soldati, quelli della colpa.
Nunzia l’ha voluta tenere la figlia di quel tedesco vigliacco e disertore.
«A..aiutami. Io…no guerra. No…buum!» Poche parole e spavento negli occhi. Più giovane di lei e di quel marito mai amato morto in Russia.
Nascosto per poche settimane in casa sua, a divorare un niente di cibo e il letto, un fulmine d’amore subito dopo precipitato. A cadere da certe quote non ci si salva mai.
È caduto, lui. Inseguito e poi fucilato alle spalle. «Meine liebe…» l’ultimo sussurro del vile per la puttana che lo stava proteggendo.
Hanno quasi ammazzato di botte anche Nunzia. È morta solo di vergogna, viva ancora lei e quella cosa sbagliata nella pancia. Si è alzata da terra a fatica, inciampando più volte a faccia in giù. Attorno a lei mura di pietra, di parole, di sguardi, di disprezzo.
Terra murata dal peggio del mondo, a fare da soffitto le scie degli aerei nemici.
I segni in cielo adesso non ci sono più, i muri sono rimasti.
Benedetta continua a restare zitta, come quando sua madre continuava a gridarle perché perdesse tanto sangue dalle gambe. Ma alla fine un nome l’ha fatto.
Nunzia sputa su un fazzoletto, per pulirle la faccia come da bambina. Strofina il vetro della fotografia, sistema piano i fiori, spolvera la croce. Non può risponderle Benedetta Ferrisi, di anni sedici, 1944 – 1960.
Stuprata a morte dal sindaco del paese, l’uomo rispettabile a cui Nunzia fa da serva e da mangiare.
La mammana conosce tante erbe per uccidere, non solo i bambini. Quel porco muore lentamente a ogni pasto e non lo sa. Nunzia è una cuoca favolosa.
Statti cueta, figghia mia. Chiddu l’avi a pa’ari e ci la fazzu pa’ari iu.*

*Stai tranquilla, figlia mia. Quello deve pagarla e gliela faccio pagare io.

©Luana Troncanetti, 2020

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