Incroci [5] di Antonella Zanca

foto di A.Zanca
foto di A.Zanca

INCROCIANDO GEMELLE

Due bambine, intorno ai dieci anni, sono vicine al padre, nella sala comune dell’ospedale.
Alte, gambe lunghe e gonnelline a righe, uguali, come uguali le pettinature, cappelli raccolti lassù ad allungare ancora di più la figura.
La pelle è ambrata e luminosa. Le magliette sono rosa, come le righe delle gonne. Vestiti identici, identici i tratti, brillanti gli occhi neri, brillanti i sorrisi, tutti verso il papà, in pigiama, seduto tra loro.
Leggono, chiacchierano, ridacchiano, allungano piccole carezze veloci al padre: sul braccio, sulle spalle, fino ad arrivare ad abbracci improvvisi e ancora risatine e piccole prese in giro.
Una delle due decide di fare una foto all’altra. Si mettono in posa, giocano vicino al padre, lo prendono in giro, lo vezzeggiano, lo sbaciucchiano.
Lui parla poco: regala sorrisi ampi e luminosi.
“Ce l’ho fatta. Le ho riviste, queste due piccole gioie della mia vita. Avevo paura, ma non tanta. Sapevo che loro mi aspettavano, loro che sono il vero premio della mia vita.
Il primo premio è stato conoscere la loro mamma. Era Sicilia, era tanto tempo fa, era caldo e terra e mare e lavoro e ancora caldo. Lei sorrideva, io avevo paura persino dei sorrisi, la gente non ci voleva bene, almeno non finché arrivava a conoscerci. Lei, Concetta, sorrideva sempre quando entravo a bere il caffè da Salvatore, il bar del fratello.
A me il caffè non è mai piaciuto, ma qui sembra che se non bevi caffè sei un po’ strano e io, con la storia della pelle già così scura, di stranezze da farmi perdonare ne avevo già abbastanza. E allora, giù caffè.
Quello del mattino, però, era buonissimo, era dolcissimo, era ricco di tutti i gusti del mondo e arrivava proprio dritto al cuore e anche al cervello, tanto forte che mi girava la testa per un po’, quando uscivo dal bar e andavo al lavoro.
Non so come abbiamo fatto, non so neppure se l’ho deciso io o se è stata lei a fare tutto, sembrava difficile e invece è stato facile, la sua mamma sembrava anche più felice di noi; ecco, alla fine ci siamo sposati, in un lampo, ma con tanti fiori e tanta gente.
Poi l’Oscar di tutti gli Oscar, quella notte, quando le urla di dolore e forse anche di paura avevano svegliato mezzo paese: non c’era tempo per arrivare in ospedale, meno male che sua mamma non si era persa d’animo, meno male che anch’io non avevo perso la testa, meno male che la vita aveva deciso di sorriderci. Per ben due volte. Due bimbe piccolissime e bellissime, uguali uguali, già sorridenti appena nate, non hanno pianto, no, ma le labbra tirate sembravano proprio un sorriso. Niente a confronto del mio, di sorriso, che è andato avanti per giorni, tanto che al lavoro mi prendevano in giro, dovevo essere davvero ridicolo, un sorriso tanto presente e tanto aperto che gli amici più cari ridacchiavano e si davano di gomito (finalmente lo vediamo anche al buio, il nostro Al Taief).
Siete cresciute, piccole mie. Vi guardo e sono felice. Vi guardo e immagino si debba ringraziare qualcuno della fortuna che ho.
Quasi che i miei sogni di bambino (volevo avere due figlie femmine, per farmi coccolare) qualcuno li possa aver ascoltati sul serio.
Non so se qualcuno che mi ascolti, lassù, ci sia veramente.
Qui, sulla terra, ci sono tre femmine meravigliose: ascolto e amore, non mi serve altro.”

©Antonella Zanca, 2016

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