Hangover [15]

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OMNIA VINCIT AMOR

Siena, 4 giugno 1944

In guerra è stupido essere astemi. Un bicchiere di vino leva la sete, due danno coraggio, tre tolgono la paura della morte.
Ero stato inviato a Siena dalla III brigata Rosselli per le mia competenze. Visto che ero laureato in storia dell’arte, il mio compito era quello di prendermi cura delle opere antiche: dovevo evitare che i tedeschi le rubassero, che gli inglesi le bombardassero e che gli americani ci pisciassero sopra per dispetto. Correvo qua e là per l’Italia con documenti falsi in cerca di tesori d’arte. Se possibile, li dovevo nascondere in luoghi difficili da trovare; altrimenti le dovevo seguire, fin dove mi era consentito dagli eventi, e fare in modo che ne restasse una traccia così da poterle ritrovare a guerra finita.
Dopo la caduta di Roma i nazisti decisero di sgomberare Firenze, abbandonare la linea gotica e raggiungere Milano o Vienna. Nel loro cammino avrebbero spogliato chiese e musei, perciò li seguivo. Spesso mi confondevo con loro per avere maggiori informazioni, conoscevo bene il tedesco e avevo con me il lasciapassare: un Ausweis con il bollo del comando 1003 e la firma falsa di un Oberstleutnant partito tempo prima per il nord. Parlavo come un tedesco, pensavo come un tedesco e soprattutto bevevo come un tedesco.
Fu naturale per me disprezzare gli uomini deboli che trovavo sul mio cammino: avevo bisogno di compagni spregiudicati e forti, pronti a sostenermi.
Ero dunque giunto a Siena deciso a prendermi cura della pinacoteca e per controllare che i camerati tedeschi non la spogliassero. Avevo trovato che i dipinti più piccoli e trasportabili erano già stati messi in salvo in campagna, nel convento di Monte Oliveto e a Villa Arceno, con la famiglia del direttore Carli; i quadri più grandi erano però restati attaccati al muro perché troppo pesanti da togliere. I custodi avevano pensato bene di restare a casa credendo che il museo non fosse più affare loro, visto che visitatori non ce n’erano e nemmeno biglietti da staccare.
Il soprintendente Niccoli, invece, non si muoveva dalla pinacoteca. Era un uomo piccolo e magro, che non alzava mai la voce e non beveva vino. Gli proposi di mettere in salvo pure i grandi dipinti: anche se Siena era stata dichiarata città ospedaliera e gli alleati avrebbero avuto la mano leggera, niente ormai poteva più dirsi al sicuro e di certo anche la città del Palio non sarebbe sfuggita a qualche bombardamento. Bisognava portare le opere in un luogo più sicuro.
Lui declinò l’offerta in maniera gentile ma ferma. Meglio non dare nell’occhio, diceva, meglio non muoversi. Nel caso ci fosse stato un vero pericolo, avrebbe occultato lui le opere in qualche magazzino. Disprezzai la sua mancanza di coraggio e decisi di andarmene il giorno successivo: lì non potevo essere d’aiuto, visto che non volevano essere aiutati.
Era vero: Niccoli aveva già fatto cose grandi per l’arte della città: il pulpito di Nicola Pisano era stato occultato dietro un muro di cemento e mattoni; le statue della facciata del duomo erano state calate a terra e nascoste. Smontate anche le gigantesche vetrate dipinte della cattedrale e portata nei sotterranei la Maestà di Duccio. Ero certo però che questo non sarebbe stato sufficiente contro le bombe e glielo dissi. Lui si limitò a sorridere e a pulirsi gli occhiali.
Era un uomo gentile ma vigliacco, pensai, come tutti gli astemi.
Proprio quella notte un aereo tedesco gettò qualche bomba sull’abitato, in modo che i senesi si ricordassero di essere italiani. I nazisti chiesero subito scusa: si trattava di un errore, la guerra si sa com’è. Un ordigno cadde sulla pinacoteca e distrusse due stanze di un deposito vuoto e un altro da trenta chili finì nel cortile del palazzo, restando inesploso.
Una parte di me gioiva al pensiero che il soprintendente mi avrebbe infine dato ragione: non c’era un luogo abbastanza sicuro in città e i grandi dipinti andavano subito spostati.
Per rimuovere la bomba provammo a chiamare i pompieri ma si rifiutarono di intervenire: non era di loro competenza. Il comando tedesco si scusò per il bombardamento ma non fornì i guastatori necessari alla bonifica perché servivano al fronte.
Di nuovo proposi al soprintendente di sgomberare le opere d’arte rimaste e lui sorridendo mi chiese di preparargli un caffè. Avrei trovato l’occorrente nella sua stanza, al secondo piano, la prima a sinistra. In pratica era un sì: di sicuro aveva capito e io ne ero felice.
Salii e trovai quello che mi aveva indicato. Mentre aspettavo che la moka facesse il suo dovere, vidi dalla finestra quell’uomo piccolo alzare con fatica la bomba, appoggiarsela sul petto e posarla fuori dal cortile, in una cassa di sabbia. Poi alzò gli occhi.
“Forse è meglio un bicchiere di vino!”, mi gridò sorridendo.
“Anche tre”, fu la mia risposta.

Nell’amministrazione italiana delle Belle Arti, Niccoli era considerato un debole perché era una persona educata. *

*cit. Rodolfo Siviero da L’Arte e il Nazismo, Cantini 1984

© Roberta Lepri, 2018
 

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