Gli involuti [10]

SEGNI PARTICOLARI

Sono uno che non dimentica le facce. È il mio superpotere. Dimentico ombrelli, date di compleanno, il minestrone sul fuoco, ma se incontro una persona, anche solo per cinque minuti, il suo viso entra di diritto nel mio archivio delle facce.

Gran superpotere di merda, in effetti.

Lei è facile: ha un viso impossibile da dimenticare. L’avrò visto per cinque minuti    almeno un centinaio di volte. Il tempo di trascrivere i dati e consegnare le chiavi. Un metro e settantadue, occhi verdi, capelli rossi. Segni particolari: è bellissima, nonostante gli abiti sberluccicanti da lavoro. Il nome cambia spesso, quanto le sue carte d’identità. Non ne ricordo nemmeno uno. Faccio tutto di fretta. Il capo dice che si deve capire che siamo un hotel di un certo livello e non un motel a ore. Sarà, ma l’imbarazzo e l’impazienza dei clienti son sempre gli stessi. Lei no, è tranquilla. Mi fissa con quegli occhi vuoti e gelidi e fa sentire in imbarazzo anche me.

Grand hotel di merda, in effetti.

Ne vedo tante come lei. È il mio lavoro. Il sesso a consumo non mi ha mai scandalizzato. Il mondo va così. Certo, bisogna farci un po’ lo stomaco a certe cose, ma ho imparato a farmi grandemente i cazzi miei. Siamo un hotel di un certo livello. Però quando vedo quel viso, con i panzoni che se la portano in camera e potrebbero essere mio nonno, o certi luridoni che non toccherei nemmeno con la canna da pesca, devo bere subito qualcosa di forte. O sbocco.

Gran lavoro di merda, in effetti.

L’ho riconosciuta subito. Non dimentico mai una faccia quando la vedo. Fa strano vederla con i pantaloni, senza tacchi ne lustrini, senza i segni particolari del lavoro è ancora meglio. Non ha nemmeno i capelli rossi. Restano gli occhi verdi e un metro e settantadue rattrappiti su una poltrona della sala d’attesa. Mi ha riconosciuto, ne sono sicuro, ma lo sguardo l’ha abbassato lei questa volta. Vorrei dirle che è ancora più bella senza parrucca, vorrei dirle che potrebbe fare la modella invece che… ma faccio finta di niente. È il mio turno. Ritiro le analisi. Sbircio nella busta la giostra dei soliti asterischi. Non malaccio per un HIV positivo.

Gran malattia di merda, in effetti.

Anche lei ha la sua busta. Mi sa che qualcosa non va. I suoi occhi verdi sono cerchiati di rosso ora. Vorrei dirle che va tutto bene, che dal momento del contagio possono trascorrere vari anni durante i quali ci si sente in piena salute – come me – e che essere sieropositivi, non significa necessariamente avere l’AIDS. Mi alzo, voglio andarle incontro. Che film mi sto facendo? Potrebbe aver mille altre malattie, essere incinta di uno di quei panzoni, o peggio. Si allontana a passi svelti, lo sguardo basso. Io resto in piedi nella sala d’aspetto. Un idiota con una busta piena di asterischi e le domande che non ho fatto.

Grandi cazzi miei di merda, in effetti.

© Anna Martinenghi, 2016

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